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Matrimonio e conversione pastorale. Intervista al Cardinale Christoph Schönborn

Durante il Sinodo straordinario sulla famiglia, che si è svolto dal 5 al 19 ottobre 2014, ero rimasto colpito, tra gli altri, dall’intervento del cardinal Schönborn, arcivescovo di Vienna.

Schoenbor

Avevamo discusso, dopo il suo intervento in aula, durante una cena da un amico comune. Allora mi aveva parlato della sua esperienza di figlio di una famiglia che ha vissuto il divorzio. La sua lucidità non veniva da una riflessione meramente intellettuale, ma era frutto di un’esperienza vissuta. Passeggiando sotto il colonnato di San Pietro, mi aveva parlato dell’oblio dei nonni e degli zii nei discorsi sinodali. La famiglia, mi disse, non è solo moglie, marito e figli: è una rete di relazioni ampia, fatta anche degli amici e non solamente dei parenti. Un eventuale divorzio si ripercuote su una trama ampia di relazioni, non soltanto su una vita di coppia. Ma è anche vero che quella trama può reggere all’urto della spaccatura e sostenere i più deboli, i figli ad esempio.

Non abbiamo interrotto quella conversazione. L’abbiamo proseguita durante due incontri successivi, dopo alcuni mesi, nella sede della Civiltà Cattolica. Una volta anche con il suo amico e confratello domenicano p. Jean Miguel Garrigues, che ho pure intervistato per la nostra rivista (1). E il colloquio, infine, è proseguito anche a Vienna, presso la Kardinal König Haus. L’intervista che segue è il frutto di questi incontri, che alla fine hanno preso la forma di un dialogo unitario. Ho chiesto al Cardinale una riflessione legata strettamente alla sua esperienza di pastore. Ed è questo afflato pastorale che dà corpo e respiro alle sue parole.

Eminenza, qual è stata, a suo avviso, l’intenzione dell’Assemblea straordinaria del Sinodo sulla famiglia? Si è parlato di gioia della famiglia e di sfide della famiglia.

Quando Francesco è divenuto Papa, era già stato fissato dal suo predecessore, Papa Benedetto, il tema per il Sinodo successivo: le questioni generali di antropologia cristiana e, soprattutto, le questioni bioetiche. Durante il suo primo incontro con il Consiglio del Sinodo, Papa Francesco ha subito osservato che sarebbe stato difficile affrontare tali questioni al di fuori di un inquadramento di fondo sulla famiglia e sul matrimonio e, di conseguenza, a poco a poco la tematica si è spostata, senza però trascurare le questioni antropologiche, ma ponendole in correlazione con questa antropologia originale che è l’insegnamento biblico sull’uomo e sulla donna, sulla loro unione, sulla loro vocazione e sul grande tema del matrimonio e della famiglia.

Ma perché tornare su un tema che san Giovanni Paolo II ha trattato in modo quasi esaustivo nel corso dei 27 anni del suo pontificato?

Penso che Papa Francesco abbia voluto innanzitutto incoraggiarci — e lo ha ripetuto più volte — a guardare la bellezza e l’importanza vitale del matrimonio e della famiglia con lo sguardo del Buon Pastore che si fa vicino a ognuno. Ha messo in moto questo synodos, questo cammino comune, in cui siamo tutti chiamati a osservare la situazione, non con uno sguardo dall’alto, a partire da idee astratte, ma con lo sguardo dei pastori che percepiscono la real­tà di oggi in uno spirito evangelico. Questo sguardo sulla realtà familiare e matrimoniale non è, innanzitutto, uno sguardo critico che sottolinea ogni mancanza, ma uno sguardo benevolo, che vede quanta buona volontà e quanti sforzi esistono, pur in mezzo a molte sofferenze. In fondo, ci viene chiesto un atto di fede: avvicinarci, come Gesù, alla folla variegata senza avere paura di essere toccati.

Nella convocazione del Sinodo sulla famiglia da parte del Pontefice possiamo dunque leggere un desiderio di concretezza, di vicinanza…

Sì, il desiderio di guardare le persone concrete nelle gioie e nelle sofferenze, nelle tristezze e nelle angosce della loro vita quotidiana e portare loro la Buona Notizia, scoprendo che vivono il Vangelo in mezzo a molte pene, ma anche a tanta generosità. Bisogna staccarsi dai nostri libri per andare in mezzo alla folla e lasciarsi toccare dalla vita delle persone. Guardarle e conoscere le loro situazioni, più o meno instabili, a partire dal desiderio profondo inscritto nel cuore di ognuno. È il metodo ignaziano: cercare la presenza e l’agire di Dio nei più piccoli dettagli della vita quotidiana. Siamo ancora lontani dall’aver realizzato questo auspicio iniziale fatto da Papa Francesco. Non abbiamo ancora raggiunto questa dimensione nel discorso ecclesiastico e nel discorso del Sinodo. Parliamo ancora troppo con una lingua fatta di concetti vacui.

Secondo alcuni, invece, lo scopo dovrebbe essere eminentemente dottrinale; altri addirittura temono per la dottrina.

La sfida che ci lancia Papa Francesco è di credere che, dotati di questo coraggio che ci viene dalla semplice vicinanza, dalla realtà quotidiana della gente, noi non ci allontaniamo dalla dottrina. Non rischiamo di diluire la sua chiarezza camminando con le persone, perché noi stessi siamo chiamati a camminare nella fede. La dottrina non è, in primo luogo, una serie di enunciati astratti, ma la luce della parola di Dio dimostrata dalla testimonianza apostolica al cuore di una Chiesa e nel cuore dei credenti che camminano nel mondo di oggi. La chiarezza della luce della fede e del suo sviluppo dottrinale in ogni persona non è in contraddizione con il cammino che Dio compie con noi stessi, che siamo spesso lontani dal vivere in modo pieno il Vangelo.

Quali sono allora le sfide che il Sinodo ordinario dovrà affrontare?

Si possono individuare diversi punti nevralgici ai quali sarebbe dannoso non dare il giusto peso. Il primo che mi viene in mente è di prendere coscienza della dimensione storica e sociale del matrimonio come della famiglia. Troppo spesso noi teologi e vescovi, pastori e custodi della dottrina, dimentichiamo che la vita umana si svolge nelle condizioni poste da una società: condizioni psicologiche, sociali, economiche, politiche, in un quadro storico. Questo finora è mancato, nel Sinodo. E la cosa è sorprendente rispetto alle enormi evoluzioni che individuo nel corso dei settant’anni della mia stessa vita. Come si può dimenticare che nel corso della storia il matrimonio non è stato accessibile a tutti? Durante alcuni secoli, forse millenni, il matrimonio non era quello che la Bibbia ci dice dell’uomo e della donna. Per un grandissimo numero di persone il matrimonio era semplicemente impossibile, a causa delle condizioni sociali. Pensiamo solo agli schiavi. Pensiamo a tante professioni per le quali il matrimonio era sia inaccessibile economicamente, sia escluso ex professo. Nelle campagne, fino a tre generazioni fa, c’erano serve, contadine che non si sposavano perché non avevano la possibilità di pagare la dote. Il nostro beato austriaco che tanto amiamo, Franz Jägerstätter, martire del nazismo, beatificato da Benedetto XVI, era il figlio illegittimo di una serva che non avrebbe mai potuto sposarsi se un contadino non avesse avuto pietà di lei e non l’avesse presa in sposa adottando il ragazzo. Nei registri battesimali dell’Ottocento a Vienna, circa la metà dei bambini erano illegittimi, figli di tutti i servitori delle case borghesi che non si potevano sposare perché non ne avevano i mezzi. Pensiamo alla situazione, anche attuale, dei Paesi poveri. Mi ha lasciato un po’ scandalizzato il fatto che al Sinodo noi parliamo molto astrattamente di matrimonio. Pochi tra noi hanno parlato delle condizioni reali dei giovani che si vogliono sposare. Ci lamentiamo della realtà quasi universale delle unioni di fatto, di molti giovani e meno giovani che convivono senza sposarsi civilmente e ancora meno religiosamente; siamo qui per deplorare questo fenomeno, invece di chiederci: «Che cosa è mutato nelle condizioni di vita?».

Lei è un pastore. È l’arcivescovo di Vienna. Che cosa accade oggi in Austria?

In Austria i giovani che convivono — e sono la grande maggioranza — sono sfavoriti dal fisco, se si sposano. Inoltre la loro situazione lavorativa molto spesso è precaria, e difficilmente essi trovano un lavoro stabile e duraturo come accadeva alla mia generazione. Come vogliamo che possano costruire una casa, fondare una famiglia in queste condizioni? Ritroviamo una situazione sociale che era assai frequente nel secolo passato, in cui molti erano esclusi dal bene del matrimonio semplicemente per la loro situazione. Non dico che ciò che avviene sia un bene, ma dobbiamo avere uno sguardo attento e compassionevole sulla realtà. Si rischia facilmente di puntare il dito sull’edonismo e sull’individualismo della nostra società. È più impegnativo osservare tali realtà con attenzione.

Avverto che il suo discorso è segnato da una fiducia nella capacità di bene delle persone, nonostante tutto.

Dobbiamo testimoniare una profonda fiducia nell’uomo, figlio di Dio, amato da Dio, e una profonda fiducia nel matrimonio e nella famiglia, cellula vitale della società. Mi ha molto colpito sentire questa fibra positiva in Papa Francesco. Per esempio, quando durante il Sinodo ci ha ricordato: «Ma voi non parlate mai dei nonni!». Ed è vero: il nostro discorso spesso è talmente formale! Lui quante volte ha parlato della sua famosa nonna che ha tanto segnato la sua vita! Ci invita a guardare con amore e con una fiducia di fondo questa realtà della famiglia.

Mi perdoni il riferimento personale, ma la sua stessa esperienza è segnata dal divorzio dei suoi genitori…

Sì, provengo da una famiglia di genitori divorziati. Mio padre si è risposato. I miei nonni erano già divorziati. Perciò ho conosciuto molto presto la situazione delpatchwork. Sono praticamente cresciuto in questa realtà, che è la realtà di vita di tante persone di oggi. Ma ho fatto anche esperienza della radicale bontà della famiglia. Nonostante tutte le crisi, tutte le ideologie che occorre denunciare e chiamare in modo chiaro per nome, malgrado tutto ciò, il matrimonio e la famiglia restano la cellula fondamentale della vita umana e della società.

Personalmente ho avvertito nel Sinodo la mancanza di due elementi: l’attenzione ai figli e la considerazione della famiglia come rete ampia di relazioni (che comprendono i nonni, i nipoti, gli zii…). Mi sembra che il Sinodo abbia avuto presente la famiglia mononucleare fatta da moglie, marito e figli, e abbia considerato le situazioni dal punto di vista dei coniugi. Non pensa che guardare dal punto di vista dei figli e considerare le famiglie con i legami che sono in grado di creare avrebbe permesso di valutare le cose in maniera differente, più completa?

Durante il Sinodo i nostri interventi erano quasi esclusivamente focalizzati sulla struttura uomo-donna-bambino. Ho ricordato — e altri lo hanno ripreso e infine è entrato nel documento finale del Sinodo — che quando due persone si sposano religiosamente o iniziano una vita di coppia, ci sono sempre due famiglie coinvolte. È il dato elementare, quotidiano, a volte segnato dalle difficoltà, di ogni matrimonio. La famiglia è la prima rete sociale nella società.

Forse il nostro sguardo sul matrimonio è talmente astratto che ci si dimentica che per secoli e millenni il matrimonio era prima di tutto l’alleanza tra due famiglie…

Al Sinodo se n’è parlato seriamente per la situazione in Africa, dove spesso il matrimonio tradizionale si fa ancora soprattutto tra le due famiglie. Ma in generale la nostra concezione del matrimonio di due persone isolate che formano una coppia è comunque molto astratta. Dietro l’incontro tra un ragazzo e una ragazza che sfocia nelle nozze esiste tutta una rete di relazioni, ci sono due famiglie coinvolte. La Chiesa deve avere una parola forte per sostenere la realtà di questa rete di famiglie, che costituisce il tessuto fondamentale dell’intera società.

Quale sguardo e quale atteggiamento tenere, a suo giudizio, verso le coppie che vivono una situazione irregolare?

All’ultimo Sinodo ho proposto una chiave di lettura che ha suscitato molte discussioni ed è stata ancora ricordata nella Relatio post disceptationem, ma che non è più presente nel documento finale, la Relatio Synodi. Era un’analogia con la chiave di lettura ecclesiologica data dalla Lumen gentium, la costituzione sulla Chiesa, nel suo articolo 8. La domanda in questione è: «Dove si trova la Chiesa di Cristo? Dov’è incarnata concretamente? Esiste veramente la Chiesa di Gesù Cristo, da lui voluta e fondata?». A questo il Concilio ha risposto con la famosa affermazione: «L’unica Chiesa di Gesù Cristo sussiste nella Chiesa cattolica», subsistit in Ecclesia catholica. Non è una pura e semplice identificazione, come se si dicesse che la Chiesa di Gesù Cristo è la Chiesa cattolica. Lo ha affermato il Concilio: «sussiste nella Chiesa cattolica», unita al Papa e ai vescovi legittimi. Il Concilio aggiunge questa frase, che è divenuta chiave: «Ancorché al di fuori del suo organismo si trovino parecchi elementi di santificazione e di verità che, appartenendo propriamente per dono di Dio alla Chiesa di Cristo, spingono verso l’unità cattolica». Le altre confessioni, le altre Chiese, le altre religioni non sono semplicemente il nulla. Il Vaticano II esclude un’ecclesiologia del tutto o niente. Il tutto si realizza nella Chiesa cattolica, ma ci sono elementi di verità e di santificazione anche nelle altre Chiese, e persino nelle altre religioni. Questi elementi sono elementi della Chiesa di Cristo, e per loro natura tendono verso l’unità cattolica e l’unità del genere umano, verso cui tende la Chiesa stessa, anticipazione, per così dire, del grande progetto di Dio che è un’unica famiglia di Dio, l’umanità. In questa chiave si giustifica questo approccio del Concilio, per il quale non si considera dapprima ciò che manca nelle altre Chiese, comunità cristiane o religioni, ma ciò che di positivo esiste. Si colgono i semina Verbi, come si è detto, i semi del Verbo, elementi di verità e di santificazione.

In che modo questa intuizione si può applicare, a suo avviso, alla famiglia? Pensa che ci siano elementi di santificazione e di verità, cioè elementi positivi, nelle forme imperfette di matrimoni e famiglie? In queste forme manca l’esplicita alleanza matrimoniale sacramentale. Ma questo pare non impedisca che ci siano anche elementi che sono quasi promesse di tale alleanza: la fedeltà, l’attenzione gli uni agli altri, la volontà di fare famiglia. Questo non è tutto, ma è già qualche cosa. È possibile riconoscere in esse «semi» della verità sulla famiglia, che poi i pastori possono aiutare a far crescere e maturare?

Ho semplicemente proposto di applicare questa chiave di lettura ecclesiologica alla realtà del sacramento del matrimonio. Poiché il matrimonio è una Chiesa in piccolo, l’ecclesiola, la famiglia come piccola Chiesa, mi sembra legittimo stabilire un’analogia e dire che il sacramento del matrimonio si realizza pienamente là dove giustamente c’è il sacramento tra un uomo e una donna che vivono nella fede ecc. Ma ciò non impedisce che, al di fuori di questa realizzazione piena del sacramento del matrimonio, ci siano elementi del matrimonio che sono segnali di attesa, elementi positivi.

Ad esempio, consideriamo il matrimonio civile…

Sì, noi lo consideriamo come qualche cosa di più di una semplice unione di fatto. Perché? È un semplice contratto civile che dal punto di vista strettamente ecclesiale non ha alcun significato. Ma riconosciamo che nel matrimonio civile esiste un maggiore impegno, dunque una maggiore alleanza, che in una semplice unione di fatto. I due si impegnano davanti alla società, agli uomini e a se stessi, in un’alleanza più esplicita, legalmente ancorata con sanzioni, obblighi, doveri, diritti… La Chiesa ritiene che sia un passo in più rispetto alla semplice convivenza. Esiste in questo caso una maggiore vicinanza al matrimonio sacramentale. Come una promessa, un segnale di attesa. Invece di dire tutto ciò che manca, ci si può anche avvicinare a tali realtà, notando ciò che di positivo esiste in questo amore che si stabilizza.

Per il Sinodo dunque sarà importante la qualità dello sguardo sulle situazioni che hanno delle mancanze oggettive.

Dovremmo guardare le numerose situazioni di convivenza non solo dal punto di vista di ciò che manca, ma anche dal punto di vista di ciò che è già promessa, che è già presente. Peraltro il Concilio aggiunge che, sebbene ci sia sempre reale santità nella Chiesa, tuttavia questa è fatta di peccatori e avanza lungo un cammino di conversione (LG 8). Essa ha sempre bisogno di purificazione. Un cattolico non può porsi su un gradino più alto rispetto agli altri. Ci sono santi in tutte le Chiese cristiane, e persino nelle altre religioni. Gesù ha detto due volte a dei pagani, a una donna e a un ufficiale romano: «Una fede così in Israele non l’ho trovata». Una vera fede, che Gesù ha trovato al di fuori del popolo eletto.

Se applichiamo questo al matrimonio, il divario non è tra coloro che vivono un matrimonio sacramentale — e sono, per così dire, in ordine — e tutto il resto dell’umanità, che vive a fatica realizzazioni imperfette di quello che dovrebbe essere il sacramento del matrimonio…

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