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Papa Francesco ai religiosi: siate gioia e dono di Dio nel mondo

Papa Francesco ai religiosi: siate gioia e dono di Dio nel mondoLa vita di clausura “non è un rifugio”, ma un “campo di battaglia” aperto sul mondo. Ogni suora è un’“icona” della Chiesa, vescovi e religiosi devono collaborare in diocesi per “fare l’armonia della Chiesa”. Sono alcuni dei pensieri espressi da Papa Francesco nel lungo incontro avuto con migliaia di religiosi della diocesi di Roma, radunati in Aula Paolo VI nell’ambito dell’Anno dedicato alla Vita Consacrata. Dopo il saluto del cardinale vicario, Agostino Vallini, il Papa ha risposto a braccio alle domande poste da alcuni religiosi – in rappresentanza dei circa 25 mila sul territorio capitolino – e riguardanti vari aspetti della loro vita comunitaria e apostolica. Il servizio di Alessandro De Carolis:

Il contemplativo si nasconde in Dio, non si nasconde dal mondo. La prima risposta di Papa Francesco ai religiosi che affollano l’Aula Paolo VI in un’atmosfera di intensa familiarità, inframmezzata da applausi e molti sorrisi, è una sorta di teologia della “grata”. Non quella “portatile”, dice Francesco con un filo di ironia, riferendo di una suora di clausura che in una lettera gli aveva comunicato di aver abbandonato il chiostro per la vita attiva. Ma neanche quella grata che somiglia più a un muro, certe volte impenetrabile e sordo al resto dell’umanità che vive fuori il perimetro del convento:

“’Ma Padre, le notizie possono entrare in monastero?’. Devono! Ma non le notizie – diciamo – dei media chiacchieroni… Le notizie di cosa succede nel mondo, le notizie per esempio delle guerre, delle malattie, di quanto soffre la gente. Per questo una delle cose che mai, mai dovete lasciare è un tempo per sentire la gente! Anche nelle ore di contemplazione, di silenzio… Alcuni monasteri hanno la segreteria telefonica e la gente chiama, chiede preghiera per questo, per l’altro: questo collegamento è importante con il mondo!”.

Il convento non è un rifugio
La riflessione del Papa era stata innescata da una domanda incentrata sul “delicato equilibrio” fra nascondimento e visibilità. L’equilibrio, afferma Francesco, non consiste tanto nel bilanciare i singoli aspetti della vita monastica, quanto nel vivere bene la “tensione” tra due chiamate: quella “di Dio verso la vita nascosta” e quella “di Dio di farsi visibili in qualche modo”:

“Perché la vostra vocazione non è un rifugio: è andare proprio in campo di battaglia, è lotta, è bussare al cuore del Signore per quella città (…) Ma tante grazie vengono dal Signore in questa tensione tra la vita nascosta, la preghiera e il sentire le notizie della gente (…) Ci sono anche monasteri che si occupano mezz’ora al giorno, un’ora al giorno di dare da mangiare a coloro che vengono a chiederlo e questo non va contro il nascondimento in Dio. E’ un servizio, è un sorriso. Il sorriso delle monache apre il cuore! Il sorriso delle monache sfama più che il pane quelli che vengono”.

Una consacrata è una madre
La seconda risposta si sofferma sulla “maternità della donna consacrata”. “C’è nella consacrazione femminile – osserva Francesco – una dimensione sponsale”, che porta ad assimilare l’amore di una suora per Cristo all’amore nel matrimonio con le medesime “qualità di perseveranza, di fedeltà, di unità, di cuore”:

“Le suore sono l’icona della Chiesa e della Madonna. Non dimenticare che la Chiesa che è femminile: non è ‘il Chiesa’, è ‘la Chiesa’. E per questo la Chiesa è sposa di Gesù. Tante volte dimentichiamo questo e dimentichiamo questo amore materno della suora, perché materno è l’amore della Chiesa, questo amore materno della suora, perché materno è l’amore della Madonna. La fedeltà, l’espressione dell’amore della donna consacrata, deve – ma ‘deve’ no… sì ‘deve’, ma non come un dovere, ma per connaturalità – rispecchiare la fedeltà, l’amore, la tenerezza della Madre Chiesa e della Madre Maria”.

L’amore concreto, bontà e verità
Un amore tenero ma anche concreto, precisa il Papa, poiché una suora, sostiene, “non può darsi il gusto di un amore sulle nuvole”. Concreto come la pagina delle Beatitudini – che Francesco definisce “la prima Enciclica della Chiesa” – e concreto come il capitolo 25 del Vangelo di Matteo sul Giudizio universale. Due brani con i quali, indica, si può vivere da consacrati “perché tutto il programma è lì”:

“La concretezza è la qualità di questa maternità delle donne, delle suore. Amore concreto. Quando una suora incomincia con le idee, troppe idee, troppe idee… Ma cosa faceva Santa Teresa? Quale consiglio dava Santa Teresa, la grande, alla superiora? ’Ma dalle una bistecca e poi parliamo’. Farla scendere alla realtà. La concretezza e la concretezza dell’amore è molto difficile (…) La concretezza della bontà, dell’amore, che perdona tutto! Se deve dire una verità, la dice in faccia, ma con amore… Che prega prima di fare un rimprovero e poi chiede al Signore che vada avanti con la correzione. E’ l’amore concreto!”.

Tappabuchi e padroni
Il Papa conosce a menadito le situazioni critiche della vita comunitaria e dopo averle accennate nella seconda risposta le riprende in modo più approfondito nella terza. Un convento può nascondere, dice, “gelosie, invidie”, critiche verso i superiori. E anche sul territorio può manifestarsi una certa “concorrenzialità” tra diocesi o magari tra Congregazioni e la collaborazione tra un vescovo e un Istituto religioso della sua diocesi può essere non facile. Francesco al solito va diritto al punto e ricordando di appartenere a entrambe le categorie, episcopale e religiosa, e dunque di capire “ambedue le parti”, annuncia che proprio per dare un contributo in questa direzione la Chiesa sta pensando di ripristinare “un vecchio documento”, il “Mutuae Relationes”, che tratta delle “relazioni fra il religioso e il vescovo”. Un testo che già il Sinodo del ’94 aveva chiesto di riformare, finora invano:

“E’ vero, l’unità fra i diversi carismi, l’unità del presbiterio, l’unità col vescovo… E questo non è facile trovarlo: ognuno tira per il suo interesse, non dico sempre, ma c’è questa tendenza: è umana… C’è un poco di peccato dietro, ma è così (…) Ma si deve lavorare per il lavoro comune (…) Così si fa la Chiesa. Il vescovo non deve usare i religiosi come tappabuchi, ma i religiosi non devono usare il vescovo come fosse il padrone di una ditta che dà un lavoro”.

Festa sì, chiasso no
La terza risposta era però partita con un pensiero sul tema della “festa”, suggerito dallo spunto di una domanda. “È una delle cose che noi cristiani dimentichiamo”, osserva Francesco, mettendo però in chiaro che il modo di fare festa è quello descritto al Capitolo 26 del Deuteronomio, ovvero il credente che porta le sue primizie a Dio, lo ringrazia per la sua bontà, poi torna a casa e fa festa condividendo i suoi beni con quelli che non hanno famiglia, i vicini ma anche gli schiavi:

“La festa è una categoria teologica della vita. E non si può vivere la vita consacrata senza questa dimensione festosa. Si fa festa. Ma fare festa non è lo stesso di fare chiasso, rumore… Fare festa è quello che è in quel brano che ho citato. Ricordatevi Deuteronomio 26. C’è il fine di una preghiera: è la gioia di ricordare tutto quello che il Signore ha fatto per noi; tutto quello che mi ha dato; anche quel frutto che io ho lavorato e faccio festa”.

Il mistero dell’obbedienza
La quarta, lunga, risposta si apre con le parole di gratitudine del Papa per padre Gaetano Saracino, giunto 45 anni fa all’Istituto Penale Minorile Casal del Marmo per rimanervi 2-3 mesi come cappellano e poi rimastovi per una vita. Padre Gaetano ha fatto questo per obbedienza, ha sottolineato Francesco, mettendo cioè in pratica la qualità che più ha caratterizzato la vita di Gesù in terra:

“Il Mistero di Cristo è un mistero di obbedienza e l’obbedienza è feconda. E’ vero che come ogni virtù, come ogni posto teologico, luogo teologico, può essere tentata e diventa, non so, un atteggiamento disciplinare… Ma l’obbedienza nella vita consacrata è un mistero. E così come ho detto che la donna consacrata è l’icona di Maria e della Chiesa, possiamo dire che l’obbedienza è l’icona della strada di Gesù. Quando Gesù si è incarnato per obbedienza, si è fatto uomo per obbedienza, fino alla croce e alla morte. Il mistero dell’obbedienza non si capisce se non alla luce di questa strada di Gesù; il mistero dell’obbedienza è un assomigliare a Gesù nel cammino che Lui ha voluto fare. E i frutti si vedono”.

Un “carisma dei laici”
Poi, il Papa passa a evidenziare la vita consacrata come “dono di profezia”. La vocazione, ribadisce, “non è un arruolamento di gente che vuol fare quella strada” ma “è il dono al cuore di una persona” e questo dono, sottolinea Francesco, “non sempre è apprezzato e valorizzato nella sua identità e specificità”. E un problema nasce quando questa identità viene smarrita da un religioso o una religiosa e si rende necessario trovare una “persona saggia” che accompagni i consacrati in crisi:

“Non è facile trovare un uomo con rettitudine e intenzioni e che quella direzione spirituale, quella confessione non sia una bella chiacchera fra amici, ma senza profondità o trovare quelli rigidi, che non capiscono bene dove sia il problema, perché che non capiscono la vita religiosa… Io, nell’altra diocesi che avevo, sempre consigliavo alle suore che venivano a chiedere consiglio: ‘Ma dimmi, nella tua comunità o nella tua congregazione, non c’è una suora saggia, una suora che viva il carisma bene, una buona suora di esperienza? Fai la direzione spirituale con lei!’. ‘Ma è donna!…’. ‘Ma è un carisma dei laici’. La direzione spirituale non è un carisma esclusivo dei presbiteri: è un carisma dei laici”.

Donne e Chiesa, genio e ruolo
Francesco spiega la diversa natura del ruolo di confessore da quello di direttore spirituale – al primo, dice, si dicono i peccati, al secondo “cosa succede” nel cuore – ed è fondamentale – indica – che i direttori di anime siano ben formati anche alla luce delle moderne “scienze umane”, purché “senza cadere nello psicologismo”. Infine, le ultime considerazioni sono ancora per le religiose e, più in generale, per la presenza delle consacrate nella Chiesa che rappresentano “l’80%” della vita religiosa. La questione, più volte sollevata, riguarda il ruolo che Francesco distingue dalla funzione. “È una grande cosa – riconosce – che le donne “vengano promosse” ai vertici della Chiesa, ma c’è di più:

“Quando mi dicono: ‘No! Nella Chiesa le donne devono essere capi dicastero, per esempio!’. Sì possono, in alcuni dicasteri possono; ma questo che tu chiedi è un semplice funzionalismo. Quello non è riscoprire il ruolo della donna nella Chiesa. E’ più più profondo (…) L’essenziale del ruolo della donna va – lo dirò in termini non teologici – nell’aiutare che lei esprima il genio femminile. Quando noi trattiamo un problema fra uomini arriviamo ad una conclusione, ma se trattiamo lo stesso problema con le donne, la conclusione sarà diversa: andrà sulla stessa strada, ma più ricca, più forte, più intuitiva. Per questo la donna nella Chiesa deve avere questo ruolo, ma deve esplicitare, aiutare ad esplicitare in tante maniere il genio femminile”.

Il giovane sorriso di 97 anni
L’ultimo saluto, ma un saluto simbolo, Papa Francesco lo rivolge a una suora di 97 anni. Ho “scambiato con lei due o tre parole – racconta – mi guardava con gli occhi limpidi, mi guardava con quel sorriso di sorella, di mamma e di nonna. In lei voglio rendere omaggio alla perseveranza nella vita consacrata”.

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