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L’avventura di Junípero Serra. Conquista le orecchie e non essere triste

FatherS«Con la faccia da funerale non si annuncia il Vangelo!». Queste parole furono pronunciate due anni fa da Papa Francesco in una messa a Santa Marta. Junípero Serra, che verrà canonizzato dal Pontefice oggi, 23 settembre 2015 negli Stati Uniti, sembrava pensarla alla stessa maniera quando, in una lettera che scrisse ai suoi superiori di Città del Messico, ricordava, di non mandargli «uomini che si stancano presto o che mettono su una faccia triste perché c’è tanto lavoro da fare».
L’apostolo della California arrivò a Veracruz in Messico — dopo novantotto giorni di nave — nel dicembre del 1749. E nonostante avesse a disposizione muli e cavalli, Serra preferì raggiungere città del Messico a piedi. L’approdo nella capitale non fu dei più felici. Durante il lungo cammino venne punto a una gamba da un insetto: grattandosi, si procurò una ferita che non si rimarginò più e per il resto della vita dovette sopportare forti dolori.
La capitale messicana aveva allora una popolazione di centomila abitanti di cui la metà erano spagnoli, il resto: meticci, africani e nativi. Nel XVIII secolo la ex capitale del regno azteco aveva ancora la struttura originaria di quando il generale Cortés l’ammirò per la prima volta due secoli prima: giaceva in mezzo a un grande lago e gli abitanti l’attraversavano usando canoe. Niente a che vedere con la giungla di cemento che è oggi la capitale messicana. Eppure in qualcosa quella città somigliava alla megalopoli odierna. Città del Messico già allora manifestava i primi sintomi di quello che sarà il suo male cronico: molti degli edifici costruiti dagli spagnoli iniziavano a sprofondare. Dopotutto la città era costruita sul letto di un lago. Oggi chiunque visiti Città del Messico non deve far altro che sporgersi dall’ultimo piano di un palazzo del centro per accorgersi come la base degli edifici contigui non è mai dritta ma ondulata, come un tappeto steso male.
Serra si fermerà nel convento di San Fernando di Città del Messico solo cinque mesi, vissuti nella preghiera e nello studio.
Correva l’anno 1750 quando insieme a un gruppo di volontari partì per la Sierra Gorda: è qui che darà inizio alla sua brillante carriera missionaria. Resta otto anni in quelle terre inospitali dove tanti altri avevano fallito. Impara la lingua nativa — il più importante manuale di allora su come amministrare i sacramenti agli indios prescriveva che, per vincere i cuori degli indigeni, bisognava conquistarne prima le orecchie: dunque imparare la lingua locale era fondamentale. Costruisce fattorie e laboratori, avvia gli indiani ai rudimenti delle scienze e delle arti e, soprattutto, li istruisce ai principi dottrinali della fede cattolica.
Era convinzione tra i missionari di quel tempo che gli indigeni avrebbero meglio appreso i principi della dottrina se anche le loro vite fossero state disciplinate: rimodellare il mondo esterno col fine di costruire un nuovo mondo interiore, era questa la sfida. Le numerose attività all’interno delle missioni avrebbero ora scandito il ritmo di vita di popolazioni fino a quel momento semi-nomadi. Non era un’operazione semplice: uno dei problemi persistenti di tutti i missionari dell’Alta California fu proprio quello di convincere gli indigeni a restare nelle missioni.
Con Carlo III e la nuova politica di riorganizzazione della Nuova Spagna, Serra avrà finalmente l’occasione di fondare le missioni per cui diventerà famoso. Risale infatti al 1767 la decisione di espellere i missionari gesuiti dalle Americhe (circa duemila che guidavano duecentoventi missioni) e la Bassa California a quel tempo ospitava diciassette missioni gesuitiche. Il Governo del vicereame incaricò i francescani di riempire quel vuoto, e Serra, in qualità di presidente, partì con una spedizione di sedici uomini.
La Bassa California era una terra arida e inospitale, gli indiani vivevano per lo più in piccole comunità composte da 70-250 individui. Non esisteva una lingua unitaria. I nativi non realizzavano grandi costruzioni, non conoscevano la ceramica e, soprattutto, non praticavano l’agricoltura. Serra scriverà di nuovo ai suoi superiori a Città del Messico: questa volta per chiedere più vestiti e coperte «perché al mondo non esistono persone più nude di queste!».
La notizia che i russi intendono occupare la costa occidentale del Nord America provoca un vero allarme tra le autorità della Nuova Spagna. Il viceré Marqués de Croix affida immediatamente all’ispettore generale José de Gálvez il compito di organizzare una spedizione per conquistare quelle terre.
Serra




Gálvez si rende conto che per una vittoria stabile e duratura era essenziale, oltre al territorio, conquistare il cuore degli indiani. Questo compito, fondamentale per il successo dell’impresa, verrà affidato a padre Junípero Serra, che nel luglio del 1769 arriva finalmente in Alta California, precisamente nel porto di San Diego. È qui che fonderà la prima delle sue nove missioni in California.
La sfida di Serra di evangelizzare l’Alta California fu la più difficile. Ma i maggiori ostacoli non erano tanto le naturali incomprensioni con quei popoli legati ancora a una cultura di caccia e raccolta, quanto le continue controversie con i soldati spagnoli al seguito. Se da una parte questi erano essenziali per difendere le missioni dagli attacchi di tribù ostili, dall’altro erano d’intralcio alla conversione di quei popoli: non era raro che i soldati molestassero le donne native e le malattie che diffondevano — la sifilide, il vaiolo, il morbillo e l’influenza — minarono permanentemente la vitalità demografica delle missioni in Nord America.
Il 28 agosto del 1784, esattamente trentacinque anni dopo il suo arrivo a Veracruz, Serra muore settantenne all’interno della missione di San Carlos Borromeo. La seconda delle missioni in California che lui stesso aveva contribuito a fondare.
di Cristian Martini Grimaldi
L’Osservatore Romano

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