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Chi è Nino Costa, il poeta piemontese citato da Papa Francesco nell’Omelia?

CostaNino-208x300Oggi, il Papa, nel corso dell’omelia della sua prima Santa Messa a Torino, ha citato alcuni versi del poeta piemontese Nino Costa (Torino, 28 giugno 1886 – Torino, 5 novembre 1945). Ecco le parole del Santo Padre:
“Cari fratelli e sorelle torinesi e piemontesi, i nostri antenati sapevano bene che cosa vuol dire essere “roccia”, cosa vuol dire “solidità”. Ne dà una bella testimonianza un famoso poeta nostro: «Dritti e sinceri, quel che sono, appaiono: teste quadre, polso fermo e fegato sano, parlano poco ma sanno quel che dicono, anche se camminano adagio, vanno lontano. Gente che non risparmia tempo e sudore– razza nostrana libera e testarda –. Tutto il mondo conosce chi sono e, quando passano… tutto il mondo li guarda». (NdR- Nino Costa – Poesia “Rassa nostrana”).
Grazie a nonna Rosa, Francesco ha conosciuto anche l’opera di Nino Costa: con la sua poesia Rassa nostrana, che conosce a memoria. Quando era piccolo la nonna gli insegnava il dialetto di quel Piemonte da dove i suoi parenti erano partiti alla volta dell’Argentina.
“Nino Costa, nasce a Torino da una famiglia di origini ciriacesi, da madre monferrina e padre canavesano. Studente al liceo classico Cavour, laureato in Lettere e in Medicina Veterinaria, svolge per tutta la vita la professione di bancario presso la Cassa di Risparmio di Torino. Con lo pseudonimo di Mamina pubblica le sue prime poesie sul settimanale dialettale Birichin, fondato a fine Ottocento. A partire dal 1922 pubblica le sue raccolte di versi in piemontese: Mamina (1922), Sal e Pèiver (1924), Brassabòsch (1928), Fruta madura (1931), Poesie religiose piemontèise (1934), Ròba nòsta (1938), Tempesta, pubblicato postumo nel (1946). Muore a Torino il 5 novembre 1945, un anno dopo la prematura scomparsa del figlio diciannovenne Mario, ucciso durante un’azione partigiana in Val Chisone. È sepolto accanto al figlio nel cimitero di Ciriè. A lui il Comune ha dedicato una scuola media e una via nel centro cittadino.” (Fonte: pagina Wikipedia)
Nino Costa, il poeta piemontese caro a Bergoglio. Quanta Torino c’è a Córdoba
Cento poesie. Pubblichiamo stralci della prefazione al libro Nino Costa. Cento poesie piemontesi inserito nella collana «La biblioteca di Papa Francesco», diretta da Antonio Spadaro (edizioni Rcs per il «Corriere della Sera», in collaborazione con «La Civiltà Cattolica»).(L’Osservatore Romano, 17 luglio 2014).
(Albina Malerba e Giovanni Tesio) Nino Costa (Torino 28 giugno 1886 – 6 novembre 1945) si può considerare per eccellenza il poeta di Torino e del Piemonte: il più conosciuto, il più amato. Capace di affascinare tanto Luigi Einaudi (che nel 1955 scrisse un’intensa presentazione alla raccolta completa delle sue poesie per le edizioni del Cenacolo) quanto i cuori più semplici che recitano a memoria i suoi versi, entrati a far parte di un vero e proprio genius loci, quando non di un culto naturalmente profano, di cui è stato l’editore Andrea Viglongo a cogliere in primis — e non a caso — la dimensione regional popolare.
A patto che si tenga però conto di un dato essenziale: che Costa — pur partecipando dell’attività legata alla sua passione di poeta “in piemontese” — non si è mai rinchiuso in un regionalismo semplicemente emotivo e meno che mai grettamente provinciale, ma ha mirato ad aprire con la poesia le più ampie finestre al sentimento della vita (ossia poesia come vita che resta impigliata in una trama di parole).
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Come stupirsi, allora, che il piemontese-argentino Papa Bergoglio abbia imparato e ami i versi del poeta più nostro? In Argentina ci fu un tempo in cui nelle zone più profonde e remote — le zone strappate alla sterpaglia e coltivate da mani di emigranti piemontesi — il piemontese era la lingua “ufficiale”. Tanto che — come racconta De Amicis nel suo libro In America — «nel consiglio comunale si parla piemontese; i tedeschi, gli inglesi, i francesi che hanno affari con la colonia, bisogna che imparino il dialetto, e lo imparano» e perfino «una vecchia indiana, ravvolta in un mantello di cento colori, una strana faccia color di terra, gli occhi obliqui e fissi, e un sorriso di fattucchiera» poteva rispondere in piemontese («Mai pì!, mai pì!», ossia “ma no, ma no”) a una domanda di predizione meteorologica.
Nino Costa non ha mai visitato i piemontesi d’Argentina, ma nei versi di Rassa nostran-a, dedicata «Ai Piemontèis ch’a travajo fòra d’Italia» (e non solo lì) ha dipinto forse l’affresco più lucido e sicuramente appassionato del fenomeno migratorio legato al Piemonte. Una storia fino a poco tempo fa quasi priva di una narrazione, a differenza delle migrazioni dalle altre parti d’Italia: «Ò bionde ’d gran, pianure dl’Argentin- a, / “fazende” dël Brasil perse ’n campagna, / i sente mai passé n’ “aria” monfrin-a / ò ’l ritornel d’una canson ’d montagna?». (“O pianure d’Argentina bionde di grano, / ‘fazende’ del Brasile perse nella campagna, / non sentite mai passare un canto monferrino / o il ritornello d’una canzone di montagna?”).
Retorica? Non diremmo proprio. E diremmo piuttosto passione, passione ardente. Versi che recano una loro memoriosa luce di verità. E che anche oggi riescono come tali a motivare l’esplosione di gioia che ha unito in un attimo le due parti di mondo — la piemontese e l’argentina — alla notizia dell’elezione di Papa Bergoglio. Non ci sarebbe stato tanto contento senza la persistenza di una memoria non ancora oscurata e vinta dalla «dësmentia», dalla dimenticanza.
Chi di noi ha incontrato l’Argentina di oggi e i piemontesi che vi si sono stanziati, plasmandone la terra e modificandone la rotta storica (se ha senso, come crediamo, non diremo di fare la storia con i se, ma di servirsene per ipotizzare i più diversi futuri) ha potuto constatare le tracce di una ben nota affermazione ancora di De Amicis: «L’opera gigantesca dei nostri, a cui un giorno o l’altro la storia dell’Argentina dovrà solennemente pagare il debito di gratitudine». Senza i «piemontesi» d’Argentina, quella storia sarebbe stata un’altra storia, mentre è diventata una storia nostra, anche nostra. Attraversato l’oceano, è un po’ come trovarsi a casa: la cattedrale barocca di Córdoba, per esempio, con i campanili illustrati dalle stesse «teste di indio» di palazzo Carignano (non per nulla Córdoba è gemellata con Torino, e sarà anche perché, quali che siano le torsioni d’oggidì, in quella curva antica di Argentina c’è la Fiat). Ma la vera sintonia è nei volti, negli occhi, nei pensieri nei sogni di tante persone che portano i cognomi della loro origine. Incontri con gente d’aria nostrana, gesti, profili, andature delle terre di Piemonte, con un sorriso, una dolcezza in più. Storie scritte nella semantica dei nostri nomi: Casalis, Tribaudino, Bergoglio. Ognuno è un luogo, un paese mai visto, un crocicchio di strade, di vite — la commozione dei nomi, come annotava Canetti — che raccontano luoghi. Tutto appare così lontano e a un tempo così presente, così vicino.
di Luis Badilla – Alessandro R. Miccolis per il Blog ‘Il Sismografo

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