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Storia di don Alvarez, il prete profugo dalla Colombia che ora accoglie i profughi a Ventimiglia

La parrocchia di Sant’Antonio a Ventimiglia, addossata alle rocce a strapiombo che si affacciano sulla valle del Roja, il fiume che divide Italia e Francia, è da due anni il luogo dove donne e bambini migranti possono trovare un tetto sotto cui dormire, un pasto, qualcuno che li aiuta.

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Il parroco don Rito Julio Alvarez, 42 anni, ha deciso così quando ha visto l’orribile spettacolo di centinaia di persone che, fuggite dalla guerra e dal terrore, scampate ai viaggi della morte attraverso il Mediterraneo, risalita l’intera penisola, dormivano sotto i ponti della superstrada, sul greto del torrente, nascosti nelle tubature degli scarichi. Una vita che lui conosce bene. Che ha già visto e vissuto.

Don Rito viene dalla Colombia, dalla regione del Catatumbo, dove i narcotrafficanti tra il 1999 e il 2005 hanno sterminato decine di migliaia di famiglie, costretto 50 mila persone a fuggire nei boschi, a rifugiarsi nelle strade delle cittadine vicino alle stazioni di polizia sperando che la furia omicida dei signori della droga si fermasse almeno lì. Spesso si sono sbagliati. Don Rito era lì in mezzo a loro quando i narcos hanno ammazzato i suoi parenti, solo perché un suo cugino si era rifiutato di pagare il pizzo al gruppo paramilitare di Domenico Hoyos Mancuso, uno dei capi, tra i più potenti dei narcos. Mancuso era lì, quando il giovane ha detto di no, aveva moglie e figli da mantenere, supplicava che gli lasciassero quel poco per vivere. Ma i narcos non possono sentirsi dire di no, mostrare pietà vuol dire mostrarsi umani, e quindi deboli. E le bestie non possono concedersi questo lusso, quello di un briciolo di pietà. Così a un comizio, davanti alla folla, il narcos ha visto il giovane Alvarez: freddo, dicono, lo ha guardato, pistola in pugno, la mira precisa, gli ha sparato in fronte.

Esempio, si chiama esempio. Ucciderne uno per educarne cento. Ucciderne mille per educarne diecimila. Domenico Mancuso è accusato di aver compiuto direttamente 130 omicidi. Di essere il mandante di altri 8 mila.

Così la famiglia di don Rito è dovuta fuggire e lui, il prete che predicava contro i narcos, è stato portato a Ventimiglia. Ma la sorte ha strade beffarde. Dieci anni dopo, la Digos indaga sulle connessioni tra i narcos colombiani e gli importatori della droga italiani: nella zona di Imperia la ‘ndrangheta ha basi solide. E si scopre che il signore della droga, proprio quel Mancuso che ha assassinato migliaia di persone, ucciso il fratello di don Rito, costretto alla fuga la sua famiglia, abita a meno di due chilometri dalla parrocchia di Sant’Antonio, proprio la chiesa dove don Rito accoglie e aiuta i migranti che la Francia respinge.

Don Rito in questi anni non si è limitato ai suoi doveri di buon parroco, qui lo conoscono tutti. Il gruppo della Caritas che lo aiuta lo vede sempre in movimento. Chi si commuove si muove. E quei piccoli commuovono e fanno muovere il prete colombiano. Bisogna aiutare i bambini, educarli, ripete. In Colombia ha fondato una Ong, la “Fundacion Oasis de amor y paz”. A Sanremo una associazione per sostenere la fondazione in Sudamerica: “Gli angeli di pace”. Ci spiega: «In Colombia aiutiamo le famiglie in difficoltà a vivere, lavorare onestamente, ospitiamo i bambini nella nostra casa e li aiutiamo a studiare, a frequentare l’università. In Italia facciamo corsi e lezioni nelle scuole e nelle parrocchie. Qui la droga, soprattutto la cocaina, non è vista per quello che è: pochi conoscono il traffico criminale che alimenta. E soprattutto nessuno sa che dietro una dose, dietro uno sballo da discoteca, ci sono due, tre settimane di lavoro di bambini che possono avere cinque anni».

Cinque anni è l’età in cui i bimbi schiavi della Colombia, i bimbi che vengono dalle famiglie più povere cominciano a lavorare nelle piantagioni. I più grandicelli possono finire nelle formazioni paramilitari, i bimbi soldato… Cosa ne sappiamo in Occidente? «I paesi ricchi dovrebbero capire che la lotta al narcotraffico non è solo una questione di polizia, se la gente vedesse chi e come vivono gli schiavi che quella droga la coltivano, che i narcos costringono a vivere nel terrore, forse qualcuno capirebbe che quello che a tanti sembra un piccolo svago, trasgressivo ma in fondo non così dannoso, è la morte di tanti, soprattutto bambini. Non possiamo non sapere, far finta di non sapere, essere indifferenti fino a questo punto».

Non sono terroristi
L’indifferenza è il grande dolore di don Rito: «Quando ho visto i migranti che arrivavano qui a Ventimiglia, sperando di passare in Francia, quando ho visto i gendarmi francesi respingerli, e la polizia italiana caricarli sui pullman per riportarli nei campi in Meridione, e soprattutto quando ho visto intere famiglie accamparsi sulle strade, donne incinte, bambini lasciati così, mi si è spezzato il cuore. Ma come, è l’anno della Misericordia e non riusciamo a trovare un posto per loro? Sono quelli che sbarcano a Lampedusa, sono i padri e le madri e i fratelli dei bambini morti in mare, quel mare che il Papa ha definito un cimitero, e noi non possiamo far nulla? Ho dato quello che avevo e il vescovo, monsignor Suetta, mi ha incoraggiato. Poi sono arrivati i volontari. Cuochi in pensione, signore, infermiere: dall’alto per molto tempo non si è visto nessuno, ma se le autorità non si muovono noi non possiamo restare fermi. E poi basta col dire che questi sono terroristi islamici. Prima di tutto è ridicolo pensare che un terrorista venga via mare, su un gommone. Secondo, ma questo non è determinante, molti dei migranti che arrivano a Ventimiglia sono cristiani, cattolici dal Sudan, copti dall’Eritrea e dall’Etiopia. Copti, come quegli uomini sgozzati dall’Isis sulle rive della Libia».




Ora, dopo un anno, c’è un campo d’emergenza per gli uomini adulti gestito dalla Croce rossa, mentre donne e minorenni continuano a dormire negli scantinati della parrocchia, dove sono arrivate brande, coperte e vestiti. Ma la speranza di passare in Francia e poi da lì in Germania dove hanno parenti e amici e qualche possibilità in più di trovare lavoro, continua a richiamare i clandestini. Incontriamo giovani, uomini e donne, che sono passati tre o quattro volte sui sentieri delle montagne, camminando lungo la ferrovia o in treno, confusi ai turisti francesi che da Mentone il venerdì vengono al mercato di Ventimiglia. Quasi sempre chi riesce a passare, magari pagando cento euro un passeur, prima o poi viene ripreso dalla polizia francese. I migranti quasi tutti sono schedati. Le loro impronte digitali stanno nei computer dell’Unione Europea. E, secondo il trattato di Dublino, devono essere rispediti nel luogo di prima accoglienza, cioè l’Italia, o la Grecia, i paesi più facili da raggiungere. È questa la legge ed è per questo che da tempo si cerca di rivedere il trattato.

Ma per ora gli sforzi di chi vuole una ridistribuzione più equa sono stati vani. E si alimentano le meschine polemiche: per strada capita di incontrare chi ti insulta. Un uomo, un po’ scarso in storia e geografia, mi grida che sono amico dei Talebani e dei terroristi islamici. Inutile cercare di spiegare. Soprattutto quando lo incontro di nuovo poco dopo non lontano dalla stazione, parla a gesti con una bambina eritrea: gesti espliciti, offre dieci dollari per una prestazione sessuale, mi avvicino furibondo, per fortuna ci sono due agenti in borghese, hanno visto. Lo portano via. Accompagno la bimba nella parrocchia, dove sua madre la cercava. Spero che quell’uomo passi dei guai seri, ma forse troverà un avvocato che convincerà il giudice che si tratta di un equivoco, che voleva solo fare un regalo alla bimba.

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Non è l’unico caso, in Italia, sulle nostre strade, nelle nostre piazze si vede di tutto. A Villa Borghese, a Roma, o nei parchi della Riserva di Monte Mario è facile vedere ragazzini acquattati in cerca di clienti. Schiavi anche loro. Come i bimbi colombiani. «C’è gente che va in giro dicendo che prendo dei soldi per ogni migrante che accolgo – dice don Rito – e questa cosa mi fa male: non è possibile che ogni volta che qualcuno fa un’opera di misericordia si pensi che lo faccia per guadagno; mi fa male perché così molti che potrebbero non ci aiutano. Ma la gente ora sta cominciando a capire e cresce il numero di quanti si offrono per darci una mano, per dare un po’ del loro tempo».

Una forza in più
Poi il pensiero torna alla Colombia: «Anche lì ci sono bambini che hanno bisogno di aiuto, ci torno due volte l’anno. Mi chiedono cosa provo nei confronti degli assassini dei miei familiari: non provo rancore, anche se è difficile capire come si possa arrivare a tanto. Sono un uomo prima di tutto. Essere cristiano ti dà una forza in più, ma la fatica e il dolore li devi affrontare ogni giorno. Certo, essere cristiano dà un senso a quel dolore, a quella fatica. Capisci che non è vano quello che fai. Certo, la preghiera aiuta. Io prego anche per quegli assassini. Prego perché si rendano conto del male che hanno fatto e fanno ancora, altrimenti non serve arrestarli».

Don Rito parla sorridendo, anche quando dice le cose più terribili, un sorriso leggero, uno sguardo carico di attenzione, gli occhi corrono per i locali, guarda con tenerezza i bambini, e quasi con la stessa tenerezza si accorge di un angolo sporco, di un letto mal fatto, vorrebbe tutto in ordine e bello per le persone che ha abbracciato. Sa che ognuno di loro presto tenterà di partire e magari non lo vedrà più, oppure lo rivedrà dopo qualche mese. Le onde del mare che hanno gettato questi migranti a Lampedusa non si fermano, le onde del destino che li vuole senza patria e senza casa non danno tregue. Le stesse onde del destino che dalla Colombia hanno portato qui questo prete giovane e buono, che combatte il narcotraffico e libera i bambini schiavi dai signori della droga, che accoglie i migranti, che apre le porte a tutti e ha una sola domanda: «Come si fa a chiudere gli occhi davanti alla realtà?».

Lui non fa distinzione fra cristiani o musulmani, chi viene viene. «Ognuno è un essere umano», ripete. «Ognuno ha bisogno di una risposta concreta al suo bisogno». E guardando i bimbi eritrei, somali, etiopi, sudanesi che giocano a pallone nel piccolo oratorio, come tutti i bimbi del mondo, pensa ai suoi piccoli colombiani.





Redazione Papaboys (Fonte Ventimiglia, prete profugo che accoglie profughi | Tempi.it-Giacomo Rubino)

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