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I ragazzi innamorati di Genova e l’alluvione

REDAZIONALEDa dove si inizia a costruire il mondo? Prima che dalle università blasonate, dalla strada, dal fango. Chi tiene lo scettro di una città in ginocchio? Chi ha la ramazza in mano. Le foto di questi giorni dei ragazzi genovesi – piccoli, anche con solo dodici o quattordici anni – che puliscono la città dal fango sono impressionanti. Non sono sui muretti ma con i piedi nella melma del Bisagno. Ci sono foto di ragazzi che non sono i selfie dei babyminchia che riempiono i social ma sono le foto di ragazzi che faticano e puliscono, faticano e sturano tombini, faticano e tirano su e tirano fuori. Tirano fuori non solo fango ma anche la parte migliore di sé, le energie migliori della loro vita. Chi li ha fatti uscire dalle camerette linde? Chi ha tolto loro gli auricolari dalle orecchie e ora si chiamano a gran voce da un marciapiede all’altro, da un secchio all’altro? Chi li ha convinti a infilare i piedi nel fango, loro che il capello è fondamentale e la scarpa deve essere quella giusta? Non un’apocalisse della playstation ma il mare d’acqua e fango che circola per le strade della loro città. E così escono dalle stanze, si tolgono gli auricolari e si sporcano, e faticano e lavorano e strillano da morire e stavolta le mamme tacciono e non dicono “state zitti” ma sono orgogliose.

Qualcuno ha chiesto loro: cos’è successo che vi ha staccati dagli smartphone e dai selfie compulsivi? Cosa ti sei perso? Nulla. Nulla, gli hanno detto. Non ti sei perso nulla. Solo l’alluvione di Genova. Semplicemente le esondazioni. A questi ragazzi, semplicemente, è stato dato qualcosa da costruire. Qualcosa in senso letterale. Non un progetto di vita della serie “Cosa vuoi fare da grande?”. Ma una cosa. Una cosa: una città, una strada, un marciapiede, una marea di fango. Hanno avuto qualcosa in mano. Qualcosa. Non hanno in mano ‘Il loro futuro’ ma una pala, una scopa, un secchio, una ramazza. E questa è la vita. Un giorno fatto di ore fatte di cose da fare per costruire non solo ‘chi sei tu’ ma ‘chi siamo’. Torneranno ai muretti, ai selfie, alle boccucce a culo di gallina, perché se sei un ragazzino ci sta, è un tuo diritto, ma non torneranno come prima. Ora sanno che le città non si puliscono da sole ma c’è qualcuno che lo fa lavorando e che quello si chiama essere grandi. E quel qualcosa fatto assieme, per tutti, costruisce sé stessi. La propria identità.

Se è possibile trovare il lato positivo di una tragedia, è proprio questo. Guardando quei ragazzi si sente meno odore di vecchio. Ragazzi innamorati. Perché l’amore non è solo quello per una ragazza che ti fa stare tre ore davanti allo specchio per la ‘gellata’ perfetta e controllare mille volte se l’ascella puzza. L’amore è anche ciò che ti fa svegliare ed alzare per un qualcosa di grande. E, alla fine, quel qualcosa di grande è la tua città ma sei anche te stesso. Tu che finalmente ti scopri utile, forte, capace e necessario per tutti. Scoprire che il mondo non è solo la classe, gli amici del bar, quelli del calcetto, ma anche tutti quelli che quando in giorni normali giri per le strade con gli auricolari, se alzassi gli occhi scopriresti che esistono. Ora, noi grandi, dobbiamo dire: grazie, siete stati grandi! Non perdiamola noi, stavolta, l’occasione. Alziamoli noi gli occhi stavolta per guardare loro. di Don Mauro Leonardi (Prete e Scrittore) – Fonte: Huffingtonpost.it

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