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Cento anni fa nasceva Thomas Merton. Clausura e conferenze – Gli appunti originali dell’ultimo viaggio.

Thomas_Merton_1Taccuino di bordo – Thomas Merton morì il 10 dicembre 1968 per un banale incidente: folgorato nel suo albergo da un ventilatore difettoso a Bangkok, dove si era recato per partecipare a un confronto con esponenti buddisti, dopo che, nel corso del suo lungo viaggio in Oriente, aveva incontrato, tra gli altri, anche il XIV Dalai Lama.

Il dialogo interreligioso fu in effetti uno dei principali — se non il principale — interesse del monaco americano negli ultimi anni della sua vita. Nella prefazione a un suo fortunato libro Mistici e maestri zen, licenziato alle stampe nell’Avvento 1966, si domandava infatti — sulla scorta della dichiarazione Nostra aetate del concilio Vaticano II — come facciano le altre tradizioni mistiche a penetrare «quel mistero finale in cui sprofonda il nostro essere: da dove veniamo e dove siamo diretti».

A indagare quelle tradizioni orientali aveva appunto dedicato grande impegno. In particolare era col buddismo che il rapporto era più stretto: in quei medesimi anni, del resto, il gesuita Henri de Lubac aveva definito il buddismo l’esperienza spirituale più profonda e l’interlocutore più importante, più serio, con cui il cristianesimo doveva confrontarsi.

Anche Merton la pensava così: nonostante tutte le differenze col cristianesimo, anche le discipline spirituali e le grandi tradizioni contemplative dell’Oriente possono cambiare radicalmente la vita dell’uomo, elevarla a un significato più profondo, a un più pieno adempimento, a una più completa libertà dello spirito, facendo rinunciare a quell’“io” che ambisce a ingrandirsi in tutti i modi, portando a una condotta di vita sostanzialmente aggressiva.
Scriveva così negli anni della guerra del Vietnam, che tanto aveva sconvolto l’opinione pubblica americana, divisa tra la ostilità al comunismo e la percezione che si trattasse di un intervento ancora di tipo colonialistico. Non meraviglia perciò che Merton, nato in Francia nel 1915, durante la prima guerra mondiale, «a poche centinaia di miglia dal luogo in cui i soldati imputridivano nelle trincee fangose, tra i cavalli uccisi e i pezzi di cannone sfondati, lungo la Marna» — come si legge all’inizio di La montagna delle sette balze — e che nella seconda guerra mondiale aveva perduto l’unico fratello, John Paul, sia stato non solo sostenitore del dialogo interreligioso, ma anche attivo sostenitore del movimento pacifista internazionale.

Molto significativamente, proprio con il toccante racconto della morte del fratello, aviatore disperso nel Mare del Nord, La montagna delle sette balze si chiude, ed è senza dubbio questo libro — forse il più celebre tra i tanti che ha scritto dopo la sua conversione e l’entrata nel monastero trappista di Gethsemani, nel Kentucky — a fornire la chiave di lettura più adeguata, ovvero la comprensione, per l’intera sua opera. In esso Thomas racconta la sua vita, dalla nascita nei Pirenei francesi, ove il padre e la madre, entrambi pittori — l’uno neozelandese, l’altra americana — si erano stabiliti per lavorare, agli Stati Uniti, all’Inghilterra, poi di nuovo alla Francia e ancora all’Inghilterra e, infine, di nuovo agli Stati Uniti. Una giovinezza travagliata dalla perdita prematura prima della madre e poi del padre, ma senza dubbio feconda, arricchita dalla conoscenza di luoghi, persone, esperienze di cultura e di vita.

Pagine commoventi, perché a scriverle è ormai un monaco di un ordine religioso severissimo, che ha chiuso col “mondo”, ma che lo ricorda con infinito affetto, e soprattutto con gratitudine per tutto quello che di bello gli ha dato. Pagine molto suggestive, intrise di quel profondo senso del tempo e della vita che passa, sospesa tra il tempo e l’eterno, che accompagna tanta letteratura cristiana, a partire dalle Confessioni di sant’Agostino.

Un lettore giovane stenterà forse a comprendere molte parti di quel libro, non solo perché ambientate in un mondo, in una società, in forme di vita che non esistono più da diversi decenni — ormai quasi un secolo — ma soprattutto perché descrivono una realtà religiosa mutata rispetto a quella attuale. In particolare, chi non ha conosciuto la Chiesa cattolica prima del concilio Vaticano II troverà difficoltà a percepire la luminosa bellezza della liturgia, l’uso del latino, il canto gregoriano, il senso profondo di una fede e di una prassi religiosa immutata da duemila anni e soprattutto pensata come immutabile.

Solo venti anni di distanza separano La montagna delle sette balze, scritta nella clausura di un monastero, dagli ultimi libri, come Diario asiatico, Lo zen e gli uccelli rapaci, e dalla morte di Merton, monaco conferenziere in giro per il mondo. Chi non sapesse che l’autore è il medesimo, probabilmente penserebbe che si tratti di due persone diverse, tanto diversa è non solo la loro scrittura, ma soprattutto la realtà religiosa, ecclesiale descritta. Che si tratti invece della stessa persona, e soprattutto della stessa fede, lo si capisce solo se si coglie il filo conduttore che tiene saldamente unite queste forme di vita e queste realtà esteriori, di fatto differenti tra loro. Questo filo conduttore è la mistica.

 

Il giovane Thomas, infatti, fu convertito e spinto a farsi monaco dalla lettura dei filosofi cattolici — Gilson, Maritain — che lo condussero ai mistici, a Teresa di Lisieux, a san Giovanni della Croce, che rimasero sempre i suoi punti di riferimento. Era grazie a essi che il maturo monaco poteva dialogare serenamente con i maestri buddisti contemporanei, come ad esempio Daisetz Teitaro Suzuki, il quale, dal canto suo, riconosceva che «lo zen aspira a far sì che vediamo direttamente la realtà, cioè siamo la realtà stessa, in modo da poter dire, con Meister Eckhart, che l’essenza di Dio è la mia essenza»
A quasi mezzo secolo di distanza, la vicenda umana e spirituale di Thomas Merton assume perciò un significato e un valore straordinariamente attuale.
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Gli appunti originali dell’ultimo viaggio. Taccuino di bordo
(Cristiana Dobner) Thomas Merton, intellettuale e persona di preghiera, non considerò lo spostamento dalla clausura della sua abbazia trappista di Nostra Signora del Gethsemani, nel Kentucky, come uno svago o un diporto. Gli conferì invece il prezioso taglio del pellegrinaggio che da anni urgeva nel suo animo.

Il viaggio in Asia intrapreso dopo 27 anni di vita monastica conobbe diverse soste che vennero a scandire Diario asiatico. Dagli appunti originali (Verona, Gabrielli Editore, 2015, pagine 304, euro 18), il suo taccuino di bordo in cui raccolse impressioni, pensieri e grandi desideri, divenute i capitoli del libro: In volo verso l’Oriente, Calcutta, Nuova Delhi, Imalaia, Madras, Ceylon, Bankog.

La riedizione italiana giunge a stampa in occasione del centenario della nascita dell’autore: 31 gennaio 1915. La cura del volume è di due esperti: Mario Zaninelli, conoscitore degli scritti di Thomas Merton e coordinatore del convegno internazionale all’abbazia di Fiastra, organizzato nel dicembre 2008 in occasione del sessantesimo anniversario della pubblicazione di La montagna dalle sette balze, e Antonio Montanari, docente di Storia della spiritualità alla Facoltà teologica dell’Italia settentrionale. La postfazione è lasciata alla penna di dom Alessandro Barban, priore generale dei camaldolesi.

In apertura si intravvede quanto urgeva nell’animo di Thomas Merton: «Un momento estatico quello del decollo. L’ala madida di rugiada si è subito ricoperta di rivoli di sudore freddo scorrenti all’indietro. L’oblò ha pianto punteggiandosi di lacrime scintillanti. Gioia. Ci siamo sollevati da terra — io con mantra cristiani e un grande senso del destino, di essere finalmente, dopo anni di attesa, di interrogativi, di inconcludenza, sulla strada giusta». Con un intento preciso: «Che non torni senza aver sistemato questa grossa faccenda». Un mese prima della sua morte aveva infatti scritto a un amico: «Spero di poter portare al mio monastero al ritorno qualche cosa della saggezza asiatica con cui fortunatamente sono entrato in contatto».

In ogni luogo — che per lui non fu una località, ma un punto incandescente per animare il suo spirito di pioniere del dialogo interreligioso — Merton ebbe modo di incontrare monaci occidentali, ormai penetrati nella mentalità orientale, monache ed eremiti. Soprattutto gli riuscì di entrare in contatto con il mondo buddista, induista e zen, sempre colmo di attenzione e di rispetto per le differenze: «Se affermo di essere cattolico solamente con il negare tutto ciò che è musulmano, ebreo, protestante, indù, buddista, alla fine troverò che non mi è rimasto molto da affermare per dimostrare che sono cattolico. Certamente non avrò il soffio dello Spirito con cui affermarlo».
L’autobiografia si era rivelata un autentico best-seller: milioni di copie vendute e traduzioni in ventotto lingue. La narrazione della vita e della conversione gli portò notorietà in tutto il mondo. La sua attività di scrittore continuò con libri, saggi, diari, articoli e poesie.

Dal 1965 viveva da eremita all’interno dell’abbazia nel Kentucky. Eppure dalla quiete del suo eremo, con la penna, raggiunse il mondo pur conservando sempre l’intensa esperienza contemplativa, in una dinamica fra solitudine e comunione con i fratelli e le sorelle con cui condivideva il suo percorso terreno. Contemplativo ma non isolato, perché essere contemplativi non significa fuggire dal mondo e dal rapporto con i propri simili ma vivere nel silenzio e nella solitudine in estrema apertura.

Con Diario asiatico l’orizzonte di Thomas Merton si dilata e si sposta dalla dimensione prettamente geografica alla geografia dello spirito e dell’anima, aspetto che egli aveva già colto in quella che sarebbe stata l’ultima lettera agli amici del settembre 1968. «Il nostro vero viaggio — scrive — è un viaggio interiore: è un impegno di crescita, di approfondimento, e un abbandonarci sempre più all’azione creativa dell’amore e della grazia nei nostri cuori. Mai come oggi è stato così necessario rispondere a questa azione. Io prego perché tutti noi possiamo farlo. Che Dio vi benedica. Con tutto l’affetto in Cristo, Thomas Merton».

Uomo ecumenico e di dialogo interreligioso, incontrò Suzuki e il buddismo zen, il Dalai Lama ancora giovane. Giovanni XXIII aveva voluto consultare Thomas Merton quando stava redigendo la Pacem in terris e gli aveva regalato una sua stola. Anche con Paolo VI il monaco ebbe una nutrita corrispondenza, durata per vent’anni. Forse fu anche consultato per la redazione di Gaudium et spes. La sua originale spiritualità trasudava coraggio anche per il suo impegno con il movimento non-violento per i diritti civili. Voleva una pace in terra venata dal Vangelo. Ebbe a scrivere che «una parte essenziale della buona novella è che le misure nonviolente sono più forti delle armi: con armi spirituali, la Chiesa primitiva ha conquistato l’intero mondo romano». Guardava i non credenti con occhio attento, capace di cogliere una fede inespressa che denominava “fede inconscia”.

Thomas Merton non si inclinò verso l’Oriente a scapito dell’Occidente, non negò il monachesimo occidentale e neppure il suo personale essere monaco, ma volle che il volto ne fosse rinnovato per far nascere una spiritualità genuina e libera.

Le sue ultime annotazioni e riflessioni sono una sorta di epifania alla fine di un grande viaggio dentro di sé e nella tradizione trappista. Spese la sua vita alla ricerca della saggezza e della contemplazione, rese trasparenti al contatto con la tradizione buddista che, finalmente, avrebbe toccato con mano e con il cuore aperto a ogni sollecitazione. Con le sue riflessioni profonde, penetranti si sporse al di là dei confini del cattolicesimo: il divario fra la sua apertura alle altre tradizioni e quella propria si coglie in ogni pagina.

La seconda parte di Diario asiatico presenta una selezione dalle opere di Merton, e quindi consente di delineare un tracciato intellettuale e il suo metodo serrato di lavoro. Il pensiero è strutturato e riflesso mentre nella prima parte le note sono redatte di getto e a caldo, in presa diretta con una realtà che gli si faceva incontro e lo affascinava. Una sfida ardita alla sua religiosità e al suo impegno monastico, ma vibrante di una decisione ferrea: «Sono un monaco del Gethsemani e tale voglio rimanere».

di Marco Vannini per L’Osservatore Romano, 4 febbraio 2015.

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