Suicidio Roma Tre – Nessuna menzogna ha il diritto di prendersi la nostra vita

Un ragazzo si è ucciso sparandosi un colpo di pistola alla facoltà di Ingegneria dell’Università di Roma Tre. Quando è arrivata l’autoambulanza, subito allertata insieme alla polizia, non c’era più nulla da fare. Il ventiseienne, quando è stato soccorso, aveva ancora l’arma in mano. Sulle cause del gesto si ipotizza che possano essere legate alla carriera universitaria. Pare infatti che il ragazzo fosse indietro con gli esami. Giustamente il rettore Mario Panizza, subito accorso appena saputa la notizia, ha sospeso le attività accademiche per tutta la giornata in segno di cordoglio.

La notizia è di poche parole, il video è muto. Non è che non si sa ancora tutto e per questo si sta zitti: purtroppo il tutto che si sa è tale da lasciare muti. Ventisei anni, studente, suicida, pistola ancora in mano, università, pieno giorno infrasettimanale. Arrivi a lezione e trovi un ragazzo sotto il lenzuolo, morto, e uno, che ha per caso visto la scena, è all’ ospedale sotto shock. Davvero non c’è molto da dire. C’è solo da stare zitti, da rimanere muti. A che serve dire qualcosa? Perché vai armato all’università? Perché avevi già deciso di ucciderti. La mente comincia a girare: pare che tu fossi indietro con gli esami. L’avevi raccontato ai tuoi amici che eri prossimo alla laurea? O peggio alla tua ragazza e lei ti ha lasciato? Problemi familiari? Le domande sono più o meno queste, più o meno quelle di tutti. Domande che è meglio non sapere le risposte perché, saperle, ti sembra già una specie di pornografia. Ti sembra di essere un guardone. Però, se ti sei sparato all’entrata dell’università – e così è stato, ti sei sparato all’entrata – volevi farlo sapere, volevi gridarlo al mondo. Ti fai delle domande ma sono domande che non hanno diritti. Hanno risposte che devono stare zitte. Ecco, a me piace il cessare le attività indetto dal rettore, condiviso dal Ministro. Mi piace quella sospensione della parola per tutta la giornata in segno di cordoglio. Il desiderio di non condividere solo lo studio ma anche un dolore: è un bel un modo di vivere la cultura. È il desiderio di viverla in comune con gli altri. Anche se il povero ragazzo ha voluto urlare qualcosa al mondo, noi non abbiamo il diritto di sapere cosa. Ce l’ha la polizia, nel caso. Ce l’ha la famiglia, non noi. Noi non abbiamo alcun diritto ma solo un dovere. Il dovere di fermarci e di fare silenzio. Di pregare o di pensare a quello che il dolore ci suggerisce. E di prenderci la piccola cosa bella della giusta reazione, una volta tanto, delle istituzioni. Quel ragazzo faceva parte – e fa parte – di una famiglia, di un campus, di una società civile, di una vita in comune alla nostra. Finché come autorità, come semplici uomini, sappiamo ancora fermarci davanti alla morte di qualcuno, ad una morte così, feriale, feroce, e lo facciamo senza indagare, senza altra reazione che quella di essere attoniti, io credo che tra noi e nella nostra società, ci sia ancora qualcosa di vivo. E di bello.

Di Don Mauro Leonardi

Articolo tratto da IlSussidiario.net


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