Si scattano selfie dove è stato ucciso l’amico: la morte non ci riguarda più?

Chi durante il Giubileo di Papa Francesco sta provando a vivere le opere di misericordia corporale, si sarà fatto qualche domanda rispetto a come farsi interpellare dall’ultima, la settima, quel “seppellire i morti” che è d’attualità allorché i cadaveri sono cibo per gli avvoltoi o quando li trovi per le strade delle periferie del terzo mondo ma che sembra non avere senso per noi che i morti li seppelliamo sempre e inesorabilmente, o li archiviamo lindi e sterili in urne di cenere che occupino poco spazio. Per costoro, quanto accaduto ieri pochi minuti dopo mezzogiorno nella periferia orientale di Napoli può essere una luce accesa, per me lo è stato. Può aiutare a comprendere perché la settima opera di misericordia corporale non vada espunta dall’elenco e conservi, anzi, una sorprendente attualità.
Accade quindi che a San Giovanni a Teoduccio (Campania), il diciottenne Vincenzo Amendola ai primi di febbraio scompare e, pochi giorni fa, viene trovato morto con un colpo di pistola alla testa e sepolto sotto mezzo metro di terra, a un tiro di schioppo da un paio d’istituti scolastici. Da lì, ieri, esce un gruppo di studentesse che, passando accanto alla buca vuota dove aveva iniziato a decomporsi il cadavere del loro coetaneo, ha pensato di fare una gara di selfie da mandare a parenti e conoscenti. “Sapevano benissimo ciò che era successo: siamo arrivati insieme e ho sentito che, fra di loro, dicevano: ora lo fotografo per mandarlo a mia madre”: così ha raccontato Marco Sales, il fotoreporter che ha ripreso la scena.
Come si passa dalla disperazione ostentata della morte, quella con grida, pianti, invocazioni urlate, memorie ad alta voce (il fatto dei selfie si svolge nella periferia di Napoli, non lo dimentichiamo) alla condivisione via Facebook? Come si va dal dolore che dentro brucia come un fuoco alla messa a fuoco dell’obbiettivo? Cosa avviene che spinge da una fossa che ancora odora del morto alla fossettina che fa la boccuccia nei selfie? Sono domande ciniche ma dovremmo farcele se vogliamo capire perché queste ragazze non hanno più lacrime a meno che non siano a portata di flash. Forse ci facciamo la foto col morto – o con quello che resta del luogo in cui il suo cadavere riposava – perché siamo all’esito finale del mondo tardo-moderno, post napoleonico, quello che concepisce la città come luogo che deve tenere a distanza i morti. L’allontanamento dei cimiteri dalle città e dalle chiese è in fondo una delle forme più esplicite di negazione delle tradizioni rispetto alla morte e ai morti. Dovunque si trovi una città non toccata da Napoleone si trova nuovamente, attorno alle chiese, la condivisione vera (non quella dei social) tra vivi e morti. Una contaminazione tra vita buona e morte che presuppone una relazione strutturale tra il vivere e il morire: qualcosa che sembra sfuggire a queste ragazze. Non è un discorso difficile da sociologo quello che sto facendo: basta pensare in Italia ai piccoli paesi del sud Tirolo o, al contrario, che la nuova cittadina di Porto Cervo progettata a tavolino per la vita lieta delle vacanze spensierate, è senza cimitero. Non contempla neppure la possibilità di avere a che fare con la morte e con i morti. Non di dà pensiero di essi. Per lo meno, non durante le vacanze spensierate.
Le ragazze riprese dal reporter mentre si fotografano non sono extra terrestri ma sono le nostre figlie, sorelle, nipoti, studentesse, ragazze del quartiere. Insomma sono figlie della nostra cultura e soprattutto della nostra mancanza di cultura. Quei selfie sono una notizia tragica. Come quando a Mondello, lo ricordate? era il 3 agosto scorso, la gente continuava a farsi il bagno al mentre il corpo di un affogato giaceva sotto un telo accanto a loro. In tutto questo, nella notizia negativa, c’è anche un fatto positivo, ed è il fotoreporter. Che ha fatto una articolo su queste foto. Come fosse abituato ai delitti ma non a scene come questa.

Di Don Mauro Leonardi

Articolo tratto da IlSussidiario


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