Shimon Peres: ‘Con Francesco un patto di pace fra tutte le religioni’

Shimon Peres, presidente israeliano, intervistato da Maurizio Molinari, corrispondente da Gerusalemme del quotidiano La Stampa ha dichiarato: «Francesco ha colto lo spirito del tempo».

Cravatta celeste, cura dei vocaboli, citazioni di Ben Gurion e drappi vaticani nella residenza: così Shimon Peres si appresta ad accogliere Papa Francesco, riconoscendogli il merito di «rappresentare lo spirito della nostra epoca». A due settimane dal termine del settennato di presidenza d’Israele, il 90enne leader laburista sfrutta questa intervista per recapitare messaggi a Europa, Iran e palestinesi ma anche per anticipare cosa ha in mente per la vita da privato cittadino: «Far sentire la mia voce».

Quale ruolo hanno il Pontefice e la Chiesa in Medio Oriente?
«Il Papa rappresenta lo spirito della nostra epoca, con la modestia supera divisioni e incomprensioni. La nuova era di Francesco si esprime in più ambiti, quello spirituale ma anche nell’economia globale, dove conta più la buona volontà che la forza. C’è un incontro fra globalità delle azioni e dello spirito, si può tenere la propria identità e permettere a una persona di essere differente. Non credo che qui avremo la pace solo perché arriva il Papa ma ritengo che la sua presenza potrà dare un grande contributo perché tutti lo rispettano, ebrei, cristiani, musulmani, drusi. E c’è attesa collettiva perché arriva in un momento delicato per il processo di pace».

Lei ha già incontrato Giovanni Paolo II e Benedetto XVI, che cosa distingue Francesco rispetto ai predecessori?
«Ogni Papa ha personalità e messaggi propri. La leadership di questo Papa è nel dirci chi dover essere e non cosa dover fare».

C’è allarme per gli attacchi dei gruppi estremisti ebrei a chiese e moschee. Che cosa pensa di questo tipo di violenze?
«Chi vive su questa terra deve rispettare la santità dei suoi luoghi. Ogni religione deve rispettare quelli degli altri. Il governo israeliano è impegnato a consentire a ogni singola persona di avere accesso, libero e sicuro, a chiese, moschee e sinagoghe».

Gli accordi bilaterali Israele-Vaticano saranno completati?
«Sono stato io a iniziarli, dieci anni fa, e sono pressoché conclusi. Manca solo la firma. Il nostro interesse è tutelare la Chiesa a cominciare dalle sue scuole, di altissima qualità».

I negoziati promossi dagli Usa fra Israele e palestinesi sono in «pausa». Il successo resta possibile o siamo in un vicolo cieco?
«Non tutto è fermo. A Londra Kerry ha incontrato Abu Mazen e Livni ha fatto lo stesso. I negoziati sono in crisi ma non sono falliti perché nessuno ha una soluzione migliore dei due Stati, a dispetto delle tante cose che vengono dette. La maggioranza delle persone, guardate i sondaggi, è stufa di guerre. C’è un conflitto ma ebrei, cristiani e musulmani non possono accettare che i figli possano venire uccisi un giorno come avviene oggi in Iraq e Siria».

Il Papa può dare un contributo?
«Certo, i capi delle religioni si incontrano, e valgono, come i capi di Stato. Alcuni gruppi estremisti dicono di agire in nome della religione e dunque i capi delle fedi devono unirsi nell’affermare che chi uccide non va in paradiso e non può vantare legami con l’Aldilà. I grandi leader delle fedi potrebbero unirsi e parlare con un’unica voce contro il terrorismo».

L’accordo Fatah-Hamas quali conseguenze ha sul negoziato?
«Non si può avere un governo nel quale c’è chi persegue la pace e chi uccide la gente. Se Hamas continua a essere un’organizzazione terroristica che non rispetta gli accordi di pace siglati come può unirsi con Fatah? Ho negoziato con Arafat e gli dissi che fino a quando ci sono due fucili non si può avere un’unica nazione. Gli spiegai Abramo Lincoln, dicendogli che andò in guerra non per amore delle armi ma per unire la sua gente. Le divisioni non si superano solo con i pezzi di carta, servono azioni concrete. Israele nel 2005 ha lasciato completamente Gaza, avevano 8mila cittadini in 22 insediamenti protetti da 75mila agenti. Siamo andati via senza distruggere nulla. Hamas non soffre più l’occupazione ma è afflitta dalla povertà dei circa 2 milioni di residenti di Gaza. Allora perché spendere tanti soldi per tunnel o razzi? Per il bene della pace i palestinesi devono unirsi, ma scegliendo la strada della pace e non quella del terrore».

In Israele c’è chi dubita di Abu Mazen, per lei è credibile?
«Nel governo ci sono diverse opinioni su di lui ma ciò che conta è che i negoziati continuano. Conosco Abu Mazen da molti anni, Oslo fu firmato da me e lui, a Washington. Con lui si può trattare ma, certo, ha il suo pubblico. La mia esperienza è che nessun governo può ignorare la realtà: le differenze non sono così grandi come appare. I negoziati però devono essere fatti con discrezione».

Lei parla di negoziati in corso mentre siamo in un’impasse…
«Certo, c’è interruzione nei negoziati ma i contatti sono quotidiani, costanti. La polizia palestinese coopera con noi».

Sono in corso negoziati segreti?
«Se ci fossero negoziati segreti non lo direi». Di Maurizio Molinari fonte: vaticaninsider.lastampa.it

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