Talvolta nelle parrocchie dove vi sono maggiori investimenti educativi, formativi, spirituali e anche economici per la pastorale giovanile si presenta la questione di un inaspettato e immaturo cambio generazionale degli educatori. Infatti, centinaia di giovani del sud – fra questi tanti formati e impegnati nelle parrocchie – per continuare il percorso di studio all’università o per ricercare lavoro si recano in altre regioni italiane. Suddetto dato ha dei risvolti positivi – si pensi alle esperienze di crescita accademica, umana e lavorativa che compiono i nostri giovani fuori dal proprio contesto locale – ma anche negativi se osserviamo attentamente lo smembramento del tessuto parrocchiale, sociale e in genere umano che provoca l’esodo verso città più ricche e con possibilità d’inserimento lavorativo e sociale.
La comunità ecclesiale non ha certo fra le sue finalità la progettazione politica di autentici, duraturi e trasparenti percorsi di sviluppo per il nostro territorio tali da consentire la permanenza in città della quasi totalità dei giovani. Nondimeno, le parrocchie sono investite di una responsabilità assai importante: formare i giovani sin dai primi anni dell’adolescenza affinché nel futuro prossimo – ovunque si trovino – siano testimoni credibili di Cristo risorto ma anche autentici cittadini attivi in una società plurale, diversificata e ormai da parecchio tempo non più “cattolica”. Questa missione delle parrocchie può essere espressa metaforicamente tramite la figura dei genitori i quali educano, temprano, formano i propri figli poi destinati a fiorire in luoghi distanti da quelli delle origini. Se è davvero questa la finalità della comunità parrocchiale per i propri membri più giovani, allora bisogna interrogarsi sui metodi, sulle proposte e sulle possibilità che l’intera famiglia della parrocchia – in primis i ministri ordinati assieme agli educatori – offre dinanzi al problema giovanile.
Anzitutto pare d’obbligo precisare che i giovani vanno pian piano seguiti, accompagnati, formati nella prospettiva umana-spirituale. Questa trova il mezzo nei percorsi educativi dell’anno pastorale, il culmine nella partecipazione consapevole alla liturgia e solo secondariamente alle attività esterne, celebrative e connesse alle ricorrenze parrocchiali. Circa quest’ultime attività, i giovani dovranno essere collaboratori ubbidienti e preferibilmente non stabili degli educatori adulti e dei ministri ordinati onde evitare che le forze, l’attenzione e l’impegno per il primario ordine educativo-spirituale siano messe da parte o del tutto annullate. Qualora non fossero presenti e disponibili educatori adulti per l’organizzazione delle attività celebrative, non siano i giovani a sostituirli poiché non occorre bruciare in anticipo una vitalità da indirizzare verso la formazione. Il fine della parrocchia, soprattutto per i giovani, è di ordine formativo-educativo-spirituale. Se non si trovano le forze per la preparazione e lo svolgimento di eventi celebrativi e festaioli vi si può anche rinunciare.
Inoltre, sarebbe opportuno – prima di offrire pacchetti di proposte spirituali o ricreative – ascoltare con dovuta calma e dovizia i giovani i quali sono portatori di interessi, di ansie, di progetti, di idealità, di passioni, di vitalità e soprattutto di carismi che – anche se non in linea con percorsi già avviati da tempo nelle parrocchie – vanno valorizzati, indirizzati e definitivamente liberati per portare molto frutto. Ascoltare realmente apre alla dimensione della vera collegialità che pertanto deve includere condivisione nelle scelte pastorali, organizzative, economiche.
A me pare, pertanto, che il problema giovanile sia questione ecclesiale da affrontare con i mezzi di cui la Chiesa dispone: l’annuncio di Cristo che converte l’uomo e salva il mondo. Solo in questa dimensione possiamo cogliere il vero fine della nostra missione e dunque relativizzare molte dimensioni che spesso ci appesantiscono, ci annebbiano la mente e ci impediscono di pensare che aver formato giovani oggi impegnati in parrocchie e città distanti da noi sia un’autentica ricchezza. di Rocco Gumina
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