Nella Basilica Vaticana il canto di ringraziamento per l’anno appena trascorso. Papa Francesco: “Gesù è il ‘concentrato’ di tutto l’amore di Dio in un essere umano”. Al termine della preghiera la visita del Pontefice al presepe in piazza San Pietro
“È l’amore che dà pienezza a tutto, anche al tempo; e Gesù è il “concentrato” di tutto l’amore di Dio in un essere umano”. Lo ricorda Papa Francesco, che in San Pietro presiede il tradizionale canto del Te Deum, uno tra gli inni più antichi della Chiesa. Viene cantato solennemente, con l’offerta dell’incenso, il 31 dicembre per ringraziare Dio dei benefici attenuti durante l’anno appena trascorso.
Al termine dall’anno, la Parola di Dio ci accompagna con questi due versetti dell’apostolo Paolo (cfr Gal 4,4-5). Sono espressioni concise e dense: una sintesi del Nuovo Testamento che dà senso a un momento “critico” come è sempre un passaggio di anno. La prima espressione che ci colpisce è «pienezza del tempo». Essa assume una risonanza particolare in queste ore finali di un anno solare, in cui ancora di più sentiamo il bisogno di qualcosa che riempia di significato lo scorrere del tempo. Qualcosa o, meglio, qualcuno. E questo “qualcuno” è venuto, Dio lo ha mandato: è «il suo Figlio», Gesù. Abbiamo celebrato da poco la sua nascita: è nato da una donna, la Vergine Maria; è nato sotto la Legge, un bimbo ebreo, sottomesso alla Legge del Signore.
Questa è la seconda parola che ci colpisce: riscattare, cioè far uscire da una condizione di schiavitù e restituire alla libertà, alla dignità e alla libertà propria dei figli. La schiavitù che l’apostolo ha in mente è quella della «Legge», intesa come insieme di precetti da osservare, una Legge che certo educa l’uomo, è pedagogica, ma non lo libera dalla sua condizione di peccatore, anzi, per così dire lo “inchioda” a questa condizione, impedendogli di raggiungere la libertà del figlio. Dio Padre ha mandato nel mondo il suo Figlio Unigenito per sradicare dal cuore dell’uomo la schiavitù antica del peccato e così restituirgli la sua dignità. Dal cuore umano infatti – come insegna Gesù nel Vangelo (cfr Mc 7,21-23) – escono tutte le intenzioni malvagie, le iniquità che corrompono la vita e le relazioni.
E qui dobbiamo fermarci, fermarci a riflettere con dolore e pentimento perché, anche durante quest’anno che volge al termine, tanti uomini e donne hanno vissuto e vivono in condizioni di schiavitù, indegne di persone umane. Anche nella nostra città di Roma ci sono fratelli e sorelle che, per diversi motivi, si trovano in questo stato. Penso, in particolare, a quanti vivono senza una dimora. Sono più di diecimila.
D’inverno la loro situazione è particolarmente dura. Sono tutti figli e figlie di Dio, ma diverse forme di schiavitù, a volte molto complesse, li hanno portati a vivere al limite della dignità umana. Anche Gesù è nato in una condizione simile, ma non per caso, o per un incidente: ha voluto nascere così, per manifestare l’amore di Dio per i piccoli e i poveri, e così gettare nel mondo il seme del Regno di Dio, Regno di giustizia, di amore e di pace, dove nessuno è schiavo, ma tutti sono fratelli, figli dell’unico Padre.
La Chiesa che è a Roma non vuole essere indifferente alle schiavitù del nostro tempo, e nemmeno semplicemente osservarle e assisterle, ma vuole essere dentro questa realtà, vicina a queste persone e a queste situazioni. Questa forma della maternità della Chiesa mi piace incoraggiarla mentre celebriamo la divina maternità della Vergine Maria. Contemplando questo mistero, noi riconosciamo che Dio è «nato da donna» perché noi potessimo ricevere la pienezza della nostra umanità, «l’adozione a figli». Dal suo abbassamento siamo stati risollevati.
Dalla sua piccolezza è venuta la nostra grandezza. Dalla sua fragilità, la nostra forza. Dal suo farsi servo, la nostra libertà.
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