Categorie: Ethica et Oeconomia

Ovulo ”manipolato”. Aperta la strada alla brevettabilità

Un ovulo sottoposto al processo di attivazione sperimentato, è anche detto “partenote”. Ovvero, “indotto a iniziare un processo di divisione e sviluppo per partenogenesi sperimentale”, quindi senza bisogno di essere fecondato da uno spermatozoo. Il motivo per cui si vogliono brevettare i “partenoti” è che da essi si possono estrarre cellule staminali di tipo “embrionale” (pluripotenti), adatte per terapie sperimentali

Non c’è pace fra gli ovuli, diventati oggetto di “discriminazione” giuridica in base alle loro caratteristiche biologiche. Alcuni sono brevettabili, altri no. Così ha sentenziato oggi (18 dicembre) la Corte di giustizia europea, sancendo la brevettabilità a fini industriali di un ovulo umano “manipolato” ma non fecondato. Nel caso in questione, “manipolato” sta per “indotto a iniziare un processo di divisione e sviluppo per partenogenesi sperimentale”, quindi senza bisogno di essere fecondato da uno spermatozoo. Un ovulo sottoposto a un tale processo di attivazione è anche detto “partenote”.

Ma sono le motivazioni della sentenza, più dell’autorizzazione alla brevettabilità in sé, a suscitare qualche interrogativo. “Un ovulo umano non fecondato il quale, attraverso la partenogenesi, sia stato indotto a dividersi e a svilupparsi, non costituisce un ‘embrione umano’ qualora, alla luce delle attuali conoscenze della scienza, esso sia privo, in quanto tale, della capacità intrinseca di svilupparsi in essere umano, circostanza che spetta al giudice nazionale verificare”. In parole povere, se non sei strutturalmente in grado di portare a termine uno sviluppo embrionale, non sei un embrione. E siccome il giudice del rinvio, nella stessa sentenza, osserva che “stando alle attuali conoscenze scientifiche, i partenoti di mammiferi non potrebbero mai svilupparsi a termine in quanto, a differenza di un ovulo fecondato, essi non contengono Dna paterno, il quale è necessario per lo sviluppo del tessuto extraembrionale”, ne consegue logicamente il permesso alla brevettabilità. Ma è proprio quest’osservazione a contraddire e capovolgere una precedente sentenza della medesima Corte, emanata nel 2011, che affermava l’esatto opposto: “Tale qualificazione (di ‘embrioni umani’) deve essere riconosciuta anche all’ovulo umano non fecondato in cui sia stato impiantato il nucleo di una cellula umana matura e all’ovulo umano non fecondato indotto a dividersi e a svilupparsi attraverso la partenogenesi”, poiché anche se tali organismi non sono stati oggetto, in senso proprio, di una fecondazione, gli stessi, per effetto della tecnica utilizzata per ottenerli, sono tali da dare avvio al processo di sviluppo di un essere umano come l’embrione creato mediante fecondazione di un ovulo”.

Ancora una volta, dunque, la questione “embrione sì”, “embrione no”, in questo caso applicata al “partenote”, fa appello ai dati della scienza per trovare una risposta. Ma non sempre essa è in grado di offrire risultati univoci; e in ogni caso i dati disponibili richiedono sempre un’interpretazione (che per definizione sconfina nella filosofia). Il motivo per cui si vogliono brevettare i “partenoti”’ è che da essi possono essere estratte cellule staminali di tipo “embrionale” (pluripotenti), adatte a essere impiegate per terapie sperimentali. Si chiamano cellule staminali “embrionali” proprio perché il luogo naturale in cui reperirle è l’embrione e, più esattamente, la massa cellulare interna, struttura presente con le stesse caratteristiche sia nell’embrione naturale che nel “partenote”. Dunque, affermare che quest’ultimo sia intrinsecamente incapace di portare a compimento il proprio sviluppo è quantomeno scientificamente “provvisorio”, come dimostra anche la formulazione prudente della sentenza (che rimanda alla verifica nazionale dei dati scientifici). Allo stesso modo, concludere che questa (presunta) incapacità strutturale del “partenote” lo differenzi radicalmente da un normale embrione è pura interpretazione filosofica, che come tale può essere contraddetta. Insomma, a ben guardare, qualche dubbio ermeneutico potrebbe venire anche al giudice del rinvio che ha contribuito a questa sentenza. Se non altro, per onestà intellettuale. In realtà, ancora una volta, siamo di fronte all’evidenza di quanto le parole, talvolta ammantate di “scientificità”, possano essere brandite come strumenti di creazione della realtà, anziché limitarsi a descriverla. Riconoscere questo rischio è condizione essenziale per avanzare, tanto nelle scienze quanto nella giurisprudenza. Con buona pace degli ovuli, di ogni tipo.

di Maurizio Calipari per Agensir

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