I curdi – diceva Mustafà Barzani, il leader storico dei curdi – hanno come amici solo le montagne. Una dura verità che oggi vale più che mai anche per i circa 15mila yazidi deltransit center.
Le mille tende sono sotto il sole delle montagne dove da una settimana si aggirano tutti questi scampati dal Sinjar: un girone dell’inferno dantesco, l’inferno degli yazidi.
Hammo Khalaf, ex guardia di frontiera dell’esercito iracheno, sale per il lungo viale con un suo compagno di villaggio. Il racconto, in fondo, è sempre lo stesso: «Il 3 agosto alle sei del mattino all’improvviso i peshmerga si sono ritirati ». Gli uomini del Daish,
l’Isis in arabo, e la fuga sulle montagne del Sinjar. «Siamo rimasti là cinque giorni senza cibo e senza acqua. Tanti anziani e bambini non ce l’hanno fatta», dice con gli occhi rossi nel cafetano color crema. «Quelli che sono rimasti sono stati massacrati e a loro hanno rubato tutto».Ahmed Barzan, il berrettino con la visiera, lavorava in una compagnia petrolifera. Per questo parla un discreto inglese. «Guardate queste foto, guardate questo massacro», racconta con un telefonino in mano. Si vedono dei cadaveri: sono quelli di Kocho, un villaggio vicino al suo. Sono comparsi gli uomini del califfo nero: due o tre giorni di ultimatum per la solita, terribile minaccia. «O vi convertite all’islam o vi uccidiamo ». Erano duecento abitanti a Kocho. «Tutti gli uomini sono stati uccisi e le donne sparite». Da ogni tenda lo stesso muto lamento, addolcito dalla naturale bellezza di quegli occhi orientali e dalla grazia dei bambini insolitamente biondi.
Ma il pensiero del futuro è già una angoscia che potrebbe annullare ogni differenza con il passato da cui scappano. Costruito nel 2013 come campo di transito per i rifugiati dalla Siria, questo presidio era stato progettato per 5mila persone. Ora ne accoglie più del triplo: quasi tutti yazidi e alcuni musulmani gargary. Solo sette uomini di staff,
più una pattuglia di volontari. Una sproporzione tra bisogni e capacità di accoglienza. «Distribuiamo materassi e coperte, ma non abbiamo nessun progetto di educazione per i bambini. Qui serve tutto», dichiarano apertamente nella baracca della direzione.
Una sproporzione tra il bisogno di un po’ di dignità e l’orrore da cui si scappa, e la reclusione fisica e psicologica in cui di fatto sono già relegati. Una sproporzione che incrina già, dopo una settimana, il sollievo di essere sopravvissuti. Cibo una sola volta al giorno. «Ma qui non ci danno nulla oltre al riso ». Le tende della parte vecchia del campo, più lunghe delle ultime montate, accolgono anche tre o quattro famiglie. E tanti bambini che si aggirano per i vialetti. Un solo pensiero: «Vogliamo andarcene: un qualsiasi Paese d’Europa o degli Stati Uniti». Lo stesso muto lamento, la stessa triste consapevolezza ancora mormorata a bassa voce in città, davanti ai primi stranieri che li visitano: «Genocidio». Parola che in queste ore più che una richiesta di giustizia è una richiesta di aiuto. Alla scuola Shorsh
Intanto le autorità locali cercano di abbozzare una prima risposta: il governatore di Duhok ha delegato ai sindaci la gestione dell’emergenza. Alcuni stanno preparando buone strutture, mentre altri non ne vogliono sapere di campi e tende. Nessuno, né locali né profughi, parla di prefabbricati. Ma l’inverno si avvicina: dieci gradi di media, ma vicino alle montagne è normale avere ghiaccio e neve. Proprio allora, tre mesi dal picco dell’emergenza, secondo gli esperti di crisi umanitarie, la sopportazione della popolazione locale si potrebbe tramutare in intolleranza. E in quel caso solo le montagne resteranno amiche degli yazidi, dei caldei e di tutti gli altri profughi. Luca Geronico per AVVENIRE www.avvenire.it
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