“I colloqui diretti cominceranno domani o il giorno dopo – ha detto Yohanes Pouk, portavoce della delegazione dei ribelli – siamo pronti a discutere della fine delle violenze, è nell’interesse di tutti noi. Discuteremo anche di altre questioni importanti, relative alla spartizione del potere”. Ma ogni ipotesi di cessate il fuoco è stata finora respinta. Da Juba, intanto, le forze ribelli continuano a scontrarsi con l’esercito regolare e hanno fatto sapere di essere vicine alla capitale Juba. Gli scontri hanno creato una grave emergenza umanitaria. Tra i più colpiti vi sono gli oltre 200.000 rifugiati sudanesi accolti nei campi di Yida e Ajuong Thok nello Stato di Unità. Una delle situazione più drammatiche si registra ad Awerial, nello Stato dei Laghi (nel centro del Sud Sudan) dove oltre 70.000 sfollati, in maggioranza donne e bambini, sono privi di assistenza.
“È la prima volta che non celebriamo il Natale”. Tra le città maggiormente colpite c’è Malakal, capoluogo dell’Upper Nile, caduta proprio alla vigilia di Natale nelle mani dei ribelli. “Il giorno di Natale – racconta suor Elena Balatti, missionaria comboniana – la città è stata saccheggiata a partire dal mercato”. Il giorno successivo la città è stata riconquistata, ma la missionaria testimonia la grave crisi umanitaria in corso: “Le riserve di cibo ai mercati sono state in gran parte distrutte, il piccolo e grande commercio è stato colpito in modo tale che ci vorrà un anno se non di più per riprendersi. L’esercito ora controlla saldamente le periferie della città e coloro che si erano rifugiati nella base delle Nazioni Unite hanno cominciato a rientrare. Forse la gente abituata ad anni e anni di conflitto riesce a non disperarsi e a ricominciare dal pochissimo che loro rimane. La crisi di questi giorni è stata particolarmente grave, come ha commentato una delle parrocchiane della cattedrale: ‘È la prima volta che non celebriamo il Natale’”. Secondo le Nazioni Unite sono già 180mila i nuovi sfollati. Molti di loro hanno trovato protezione nelle basi dell’Onu, ma altri restano in zone inaccessibili, specialmente dopo l’evacuazione di parte del personale umanitario.
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