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Zio Romero? Per salvarci abbiamo dovuto fingere di non conoscerlo

Zio Romero? Per salvarci abbiamo dovuto fingere di non conoscerloIn un’intervista a Credere parla Cecilia, figlia di un cugino dell’Arcivescovo di El Salvador prossimo beato: «Con le sue omelie ha rivoluzionato il sentire del popolo»

Cecilia Romero ha avuto anche la paradossale sensazione – con sensi di colpa – di averlo tradito, suo «zio» monsignor Oscar Arnulfo. Figlia di un cugino dell’Arcivescovo di El Salvador (lo chiama «zio» affettuosamente, ndr) ucciso dagli squadroni della morte il 24 marzo 1980 e prossimo beato, è stata intervistata dal settimanale Credere, in uscita dopodomani, a cui ha raccontato di come lei e la sua famiglia per salvarsi hanno dovuto fingere di non volergli bene, di non avere legami con lui.

Hanno dovuto perfino mentire sul loro cognome: «Era un giorno di giugno del 1979. Un gruppo di militari sfondò la porta ed entrò in casa mia trovando me, mia sorella e mia madre. I miei fratelli e mio padre erano fuori. Subito chiesero di mostrargli i documenti e quando lessero “Romero” si insospettirono. “Ah, quindi siete anche voi Romero! Siete parenti?”, ci urlò uno dei soldati. “Sì, ma del presidente”». Sua madre è rimasta lucida e ha usato l’omonimia tra monsignor Oscar Arnulfo e Carlos Humberto, presidente del Salvador in quel periodo. «Se i soldati avessero capito che eravamo parenti diretti, quella “visita” ci avrebbe consegnato tutti all’arresto immediato o alla morte».

«Da un certo punto in poi i contatti della mia famiglia con Monseñor si interruppero – prosegue – Solo mio padre li mantenne, ma in segreto. Lo stesso Oscar Arnulfo ci fece capire che era meglio sospendere ogni forma di relazione e noi ci riducemmo ad ascoltare le sue omelie alla radio, non potendo neanche andare in cattedrale».

Alcuni familiari dell’Arcivescovo, compreso il padre di Cecilia, hanno subito minacce di morte e ricevuto lettere minatorie con riferimenti a figli, mogli, fratelli, parenti. Dunque fingere di non amare Romero è stato un metodo per mettere al sicuro i propri cari, ma ha lasciato segni nella coscienza di Cecilia: «Il pericolo continuò anche dopo la morte di monseñor. Fino agli anni ’90 era rischiosissimo semplicemente parlare di Romero. La visita di Giovanni Paolo II e la sua preghiera davanti alla tomba, nel 1996, cominciarono a cambiare le cose. Ma ormai avevamo interiorizzato la paura e quando ripenso a quei tempi, oltre che per la morte di mio zio piango perché sento di essergli stata lontana».

Di suo «zio» Cecilia dice: «Ha rivoluzionato nel profondo il sentire del popolo. Ho cominciato a sentirmi libera ascoltando e riascoltando le sue bellissime omelie. Tutti noi eravamo abituati al silenzio, eravamo un popolo timido, chiuso. Io stessa sono cresciuta in quegli anni abituandomi al silenzio, all’università stavo zitta. Le omelie sono state, oltre che un meraviglioso strumento pastorale, una chiamata all’apertura, di tutti, a partire dagli ultimi. Le sue parole hanno innescato una vera e propria presa di coscienza: essere povero non significa non poter parlare. Gli umili, come dimostrano per esempio i suoi funerali, lo compresero bene». Alle esequie era presente circa un milione di persone, un quarto della popolazione di tutto El Salvador, e nemmeno lo scoppio di una bomba e una sparatoria con più di 50 morti hanno ostacolato l’espressione di affetto  della gente e del paese.

Di Domenico Agasso jr per Vatican Insider (La Stampa)

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