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Un gesuita a Scampia, tra tappeti di siringhe e famiglie taglieggiate dalla Camorra

Quando sono arrivato a Scampia, nel 2001, un tappeto di siringhe segnava l’accesso al Lotto P, il terzo supermercato della droga d’Italia. Due file di edifici paralleli alti tre piani, con ballatoi, scale, cancelli, porte di ferro e passaggi sospesi: i ragazzini del quartiere le chiamano «case dei puffi», non perché costruite per il popolo degli gnomi blu, ma semplicemente perché le costruzioni sono molto più basse rispetto agli altri palazzi del quartiere.

Uno scorcio del quartiere Scampia dove le indagini della Polizia e della Guardia di Finanza, oggi, hanno riguardato in particolare l'alleanza tra i clan Di Lauro e Vanella Grassi che, tra il 2012 e il 2014 nel pieno della terza faida di Scampia, hanno messo in piedi una vera e propria industria nel narcotraffico. Napoli 6 Giugno 2017 ANSA/CESARE ABBATE/

Da un lato tre torri di dodici piani, poi il piazzale della chiesa e un grande campo incolto. «Chi sei?», ci si sentiva chiedere ogni volta che si entrava in un cortile: a domandarlo erano “pali”, i giovani sistemati di vedetta nei punti strategici, con il compito di identificare il visitatore, dargli il via libera o mettere all’erta tutta l’organizzazione.

Oggi il mercato della droga è sensibilmente diminuito: molti capi clan sono in carcere, ma solo qualche anno fa nel Lotto P lo spaccio era più che mai fiorente. I clienti provenivano da ogni parte della Campania e anche da fuori. Fisicamente deperiti, sporchi e sdentati, salivano sull’autobus R5 nei pressi della stazione centrale e arrivavano a Scampia a tutte le ore. Una volta scesi, con gli occhi semichiusi sprofondati in vistose occhiaie, si guardavano intorno in cerca di chi potesse fornire loro la dose, che veniva calata da un ballatoio, dentro un cestino, o passata attraverso la feritoia di una persiana. Dopodiché questi esseri malati, disperati, che ormai non avevano più nulla di umano, si rintanavano nei sottopassaggi di viale della Resistenza, tutti presi dal «farsi», strisciando nell’oscurità fra siringhe, vetri rotti, cartacce e rifiuti.
Nel Lotto P, però, da sempre risiedevano anche tante persone che, non avendo nulla a che fare con la droga, vivevano nella preoccupazione quotidiana che i bambini — ma anche gli adulti — potessero calpestare gli aghi sporchi di sangue lasciati ovunque: a terra, sui marciapiedi, nelle aiuole. Per questo i sandali erano assolutamente banditi: molto meglio indossare scarpe chiuse anche d’estate piuttosto che rischiare di pungersi. Di fronte a questo girone del dolore, i gesuiti residenti a Scampia, insieme ai volontari e alle persone più sensibili, si domandavano come poter aiutare i tossici. Reprimere o soccorrere? La questione era aperta anche a livello politico, benché nel quartiere non si fosse ancora visto un amministratore locale venuto a rendersi conto di persona della situazione. Il Lotto P, così come le famigerate Vele, pareva destinato a essere terra di nessuno o, peggio ancora, a rimanere teatro incontrollato del potere della camorra. Alla desolazione del traffico di droga si accompagnava anche lo stato di abbandono dei palazzi e delle case.
Muri scrostati e senza intonaco, tubi rotti con continue perdite d’acqua, sottoscala trasformati in discariche, ascensori bui e senza pulsantiere, pavimenti e ballatoi luridi, dove nessuno faceva la benché minima manutenzione. Una volta, dopo lunga insistenza, riuscii a convincere il presidente della Circoscrizione ad andare a vedere da vicino lo squallore in cui vivevano 350 famiglie: appena varcato l’ingresso del Lotto P, sul suo viso comparvero chiari segni di sconforto. «A chi spetta la manutenzione?», ci chiese sconcertato. Avrebbe dovuto farsene carico una società molto conosciuta a Napoli, la quale dava la colpa del disastro alla morosità degli assegnatari delle case popolari di proprietà comunale. Poco dopo, la stessa società fu inquisita per malaffare e le venne tolto l’appalto perché risultata inadempiente.
Se all’esterno delle «case dei puffi» predominavano l’abbandono e il degrado, all’interno molti appartamenti erano invece puliti e curati; alcuni addirittura decorati e abbelliti con stucchi ai soffitti e alle pareti, cornici con quadri, televisori di ultima generazione e persino rubinetti dorati nei bagni e nelle cucine. Il contrasto evidente con l’insieme del quartiere creava un certo imbarazzo, soprattutto a quelle famiglie che, essendo fuori dal giro della droga, soffrivano il gran movimento di tossici e di vedette e si sentivano in dovere di tenere i propri figli lontano da strade e cortili.
Le «case dei puffi» sono un agglomerato sconcertante di umanità, dove tanta gente, semplice e onesta, è costretta a convivere con l’abbrutimento di chi, nel proprio quotidiano, persegue la continua ricerca di percorsi d’illegalità. Frequentare le famiglie e le persone che abitano nelle «case dei puffi» per me è stato ed è tuttora una permanente scuola di vita, una palestra che mi ha aiutato a superare i pregiudizi, che normalmente bloccano ogni tentativo di realizzare i cambiamenti. Dalla famiglia di B., per esempio, ho imparato che cosa vuol dire resistere alle vessazioni della camorra. Vivevano dei proventi di un piccolo negozio in cui si poteva trovare di tutto: alimentari, prodotti per l’igiene della casa e della persona. Per anni si erano dati da fare, desiderosi soprattutto di accontentare i clienti, anche i più poveri, a cui spesso permettevano di comprare a credito.
B. però non sopportava la prepotenza di quelli che rivendicavano il diritto di non pagare solo perché appartenevano al clan dominante e che a Natale e a Pasqua gli imponevano di sborsare un’ingente somma, destinata — dicevano — alle famiglie dei detenuti. In cambio gli promettevano protezione e tranquillità per un anno intero. Non solo, ma gli onesti commercianti come lui erano obbligati a rifornirsi di mozzarelle e latticini vari, di pane e caffè, così come di tanti altri prodotti, esclusivamente dalle aziende produttrici collegate al “sistema”: un vero e proprio giro di affari, di cui, per fortuna, un ramo è stato spezzato grazie all’arresto degli appartenenti al clan Lo Russo. B. però, dopo anni di soprusi, è stato costretto a chiudere e a trasferirsi altrove con tutta la famiglia.
Molte famiglie del Lotto P hanno parenti in prigione o agli arresti domiciliari. Spesso mi chiedono di andare a trovarli per vedere come stanno, come se la cavano, per parlare un po’ con loro. E io ci vado, anche solo per far loro un po’ di compagnia. E ogni volta cerco di capire quanti di loro, una volta scontata la condanna, proveranno davvero a uscire dal «sistema» o comunque a non dipendere più dal condizionamento imposto dalla camorra tramite l’assistenza legale assicurata al detenuto e la «settimana» versata ai familiari mentre egli è in carcere.
Quando mi capita di accennare a questi episodi nel corso di conversazioni o incontri, c’è sempre qualcuno che mi chiede se ho ricevuto minacce o ritorsioni. Devo ammettere che non mi è mai capitato, né ho avvertito segnali di conflitto: evidentemente nessuno mi ha mai visto o percepito come un avversario o un nemico. Penso che ciò sia dovuto al fatto che ho avuto modo di conoscere queste persone fin dentro la loro famiglia, perché quasi quotidianamente le incontro per strada, e spesso mi è capitato di chiedere loro, prima ancora che venissero arrestate, se, una volta dentro, avrebbero gradito una mia visita.
È quanto mi è successo con S., un giovane detenuto con cui avevo stretto un bel rapporto di fiducia. Il giorno in cui uscì dal carcere mi disse, in assoluta segretezza ma con un gran sorriso: «Ci sono riuscito, finalmente sono fuori dal sistema!». E mi spiegò, tutto contento, che aveva capito la pericolosità della vita che fino a quel momento aveva condotto: una vita che non lo avrebbe portato in nessun luogo diverso dal carcere o dal cimitero. Però, nonostante il pentimento e la sua voglia di rinascere, non evitò di farmi sperimentare sulla mia pelle la violenza del «sistema»: una volta fuori dal carcere e dal clan, S. aveva bisogno di un lavoro, un’entrata anche minima che gli permettesse di assicurare un piatto di pasta alla sua famiglia. Il lavoro però non riusciva a trovarlo e cominciò a chiedermi sempre più spesso un aiuto economico.






Veniva a cercarmi continuamente e ogni volta era più violento e arrabbiato. Una volta, mentre eravamo nel mio studio, quando gli dissi che non potevo più dargli nulla, si infuriò a tal punto che mi scagliò contro tutte le sedie che aveva a portata di mano. Francamente mi spaventai molto, ma non mollai. Dopo qualche giorno tornò all’attacco, e ogni volta aveva reazioni sempre più brutali. Finché una mattina arrivò in Rettoria con una bottiglia di benzina per dar fuoco alla chiesa. A quel punto alcuni amici decisero di farmi incontrare con il questore, il quale immediatamente attivò la squadra antiestorsione. Pochi giorni dopo S. fu arrestato e condannato con rito abbreviato. Non riuscii ad avere il permesso di visitarlo in carcere, ma continuai a occuparmi della moglie e dei figli. Alcuni mesi dopo, scontata la condanna, S. volle incontrarmi per ammettere i suoi errori e scusarsi.
Da anni ogni lunedì pomeriggio, nella sala del condominio del Lotto P o in uno degli appartamenti, incontro un gruppo di donne — madri e nonne di famiglia — per leggere insieme il vangelo della domenica. È sempre un momento molto intenso di apertura delle coscienze, di ricerca d’aiuto nella provvidenza, ma anche di responsabile riflessione su vie nuove da seguire: il felice incontro di una semplice pietà popolare con il desiderio di approfondire che cosa significa credere.




Fonte Un gesuita a Scampia tra siringhe e Camorra | Tempi.it

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