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Scrivo a don Palmiro Prisutto, un prete nel mezzo tra veleno e autorità

Scrivo a don Palmiro Prisutto, un prete nel mezzo tra veleno e autoritàDon Palmiro è un parroco che lotta da 35 anni contro l’inquinamento industriale. Lo fa con le armi che ha: la parola e la sua parrocchia. Vuole accendere i riflettori sulla sua terra, Augusta e la provincia siracusana, protagonista di tristi record legati alle malattie tumorali. Da 2 anni, ogni 28 del mese, l’arciprete della Chiesa Madre don Palmiro Prisutto legge durante la Messa l’elenco dei morti di cancro. Oggi le liste con nome, età, tipologia di tumore e mestiere di ognuno degli oltre 800 uomini, donne e bambini, sono all’ingresso del tempio cristiano perché lui, dopo averli letti, prende quei nomi e li appende sui muri della sua chiesa. Non ha altre armi. A leggere i giornali, il suo vescovo vorrebbe rimuoverlo perché pensa troppo a queste cose e troppo poco alle confraternite. E io gli scrivo una lettera.

Caro don Palmiro,

Non è facile essere fedeli alla propria coscienza. Di te so solo quello che leggo sui giornali ma quel poco mi piace, mi sembra molto e molto importante. Ammiro molto la tua fedeltà non solo alla verità dei principi, ma alla verità delle persone. È possibile essere fedeli ai principi senza esserlo alle persone, con le persone, facendo incarnare nella nostra vita i loro volti e i loro nomi?

Mi piace il tuo volere bene al prossimo vero, non quello ideale ma quello reale: i tuoi parrocchiani, vivi e defunti. Lo hai detto tu: “Io sono parroco dei vivi ma anche di coloro che non ci sono più a causa di un genocidio che sta uccidendo un territorio e che dobbiamo fermare”.

Nella tua terra si vive di industria e nessuno, prima di te, don Palmiro, aveva sollevato il velo sui numeri allarmanti di casi di tumore e di bambini malformati. Alzare veli è quello che dovremmo fare noi sacerdoti, con le nostre vite, ogni giorno. Tra pochi giorni nel triduo santo, rivivremo il momento in cui il velo del tempio si è squarciato: a volte sembra che nelle nostre vite personali ed ecclesiali, i lembi di quel velo squarciato ricadano poi a coprirci per nascondere di nuovo Cristo ai nostri occhi. E tu, don Palmiro, da trentacinque anni, lo rialzi: rialzi il velo che mostra il dolore di Cristo.

Non è facile essere sacerdote, e anch’io un po’ lo so. A leggere i giornali sembra che tu sia in mezzo tra il veleno e le autorità. Ho sentito da poco parlare un prete simile a te – don Patricello – e diceva quanto fosse stato decisivo per lui avere sempre al proprio fianco il vescovo. Io ti auguro che anche per te sia così. Dai giornali sembrerebbe di no, ma io non so. Chiedo alla Madonna che alla croce dei veleni non si aggiunga anche quella di non essere capito da chi ti governa. Quanto è importante che vescovo e prete non siano come chi guarda un paesaggio dalla finestra e chi ci sta dentro con tutti e due i piedi.

Quando stai dentro alle cose le dimensioni cambiano. La visione di insieme è importante ma esser parte dell’insieme spesso lo è di più perché a volte quello che da lontano sembra piccolo, visto da vicino si rivela invece essere enorme e pesante. Le confraternite, così leggo, hanno voce e si lamentano. I loro rappresentanti fanno sentire le loro ragioni. I tuoi morti invece non possono più parlare e i vivi tacciono perché temono il licenziamento, la disoccupazione, e per mantenere la famiglia devono lavorare.

Le battaglie più dure, don Palmiro, non sono quelle in cui si è armati male o si ha una brutta postazione, ma quelle in cui si è soli. Credo di sapere come ti senti. Ti senti in mezzo. Un sacerdote ha il popolo da una parte che vuole da lui cose da sacerdote, dall’altra l’autorità che vuole da lui cose da sacerdote, e in mezzo lui che è solo lui, sacerdote con una coscienza, che si fa guidare dal suo pastore e che deve guidare le sue pecore. Stare in mezzo è uno dei modi di stare solo.

Nella mia attività di scrittore vengo spesso invitato a limitarmi “a fare il prete”. Lo trovi anche nei commenti del mio ultimo articolo su L’HuffPost. Lo scrivono sotto i miei articoli e io allora mi chiedo: perché non commentare i miei scritti e invece attaccare la mia persona? Quando succede, io penso che il sacerdozio è un ponte tra Dio e l’uomo e che il ponte deve essere camminato, calpestato, perché deve essere attraversato, serve per passare dall’altra parte. È solo un’immagine, ma a me serve.

Ora le tue pecore, cioè i parrocchiani, chiedono al tuo pastore, l’arcivescovo Pappalardo, di ripensarci e di non mandarti via. Io non parteggio né per i suoi parrocchiani né per il vescovo perché non è una sfida da stadio ma è la vita di un prete che vuole solo essere ciò che è, come tutti.

Sei ponte e quindi sei in mezzo: di certo non è facile ma scommetto che è l’unica strada per essere felice. I tuoi 800 parrocchiani morti hanno solo la tua voce e anche per i vivi sembra sia un po’ così. Dio attende che le nostre coscienze parlino, si fida di noi e noi di Lui. Stiamo in mezzo. Come dei ponti.

Di don Mauro Leonardi

Articolo tratto da L’Huffingtonpost


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