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Questa Domenica viene canonizzato Giovanni Antonio Farina. Vescovo dei poveri

Giovanni_Antonio_Farina_01 (1)«Quel che importava al vescovo Farina era il lavoro dell’anima, la sua inarrestabilità, per così dire, a seconda delle esigenze nuove, che emergevano dal mutare del tempo». Così scriveva lo storico Gabriele De Rosa del fondatore delle suore maestre di Santa Dorotea figlie dei sacri Cuori, che domenica mattina, 23 novembre, viene canonizzato da Papa Francesco in piazza San Pietro. Il vescovo Giovanni Antonio Farina — prosegue lo storico — «non si trovava a suo agio a muoversi fra politica e religione, fra chi predicava per l’uno o l’altro schieramento, per chi era con il Papa, e chi contro, chi era con i liberali e chi con i clericali». 

I suoi contemporanei lo hanno definito l’uomo della carità, la gente lo chiamava il vescovo dei poveri. Per De Rosa, che lo ha studiato a fondo, monsignor Farina fu «uno dei più grandi protagonisti della storia della pietà veneta dell’Ottocento».

Nato a Gambellara (Vicenza) l’11 gennaio 1803, venne educato dallo zio sacerdote, un maestro di spirito, uomo di vasta cultura e di grande carità verso i poveri. A quindici anni entrò nel seminario diocesano vicentino e divenne uno studente eccellente, tanto che a 21 anni, mentre frequentava la teologia, fu incaricato dell’insegnamento nelle scuole minori dell’istituto. Ordinato sacerdote il 14 gennaio 1827, continuò per diciotto anni a insegnare in seminario; contemporaneamente svolse per un decennio il ministero nella parrocchia di San Pietro, una delle più grandi e povere della città; inoltre fu nominato direttore della scuola pubblica liceale ed elementare di Vicenza, e membro di varie istituzioni culturali, spirituali, caritative. 

Mentre era viceparroco, diresse la pia opera di Santa Dorotea fondata dal beato Luca Passi, e organizzò la prima scuola popolare femminile della provincia, approvata dal governo austriaco, per offrire alle ragazze povere un’educazione e un lavoro. Presto comprese che il personale insegnante laico non poteva realizzare quell’ideale di dedizione totale e disinteressata che la sua opera richiedeva. Per questo nel 1836 diede vita alle suore maestre di Santa Dorotea figlie dei sacri Cuori: istituto religioso che assicurasse «maestre di provata vocazione, consacrate al Signore e dedite interamente all’educazione delle fanciulle povere». Pensò all’istituto come a un «seminario di maestre», una scuola di formazione capace di modificarsi e di adeguarsi dinamicamente alle sollecitazioni del tempo.

Così estese subito la scuola alle ragazze di buona famiglia, alle sordomute e alle cieche. Abbracciò forme di carità rispondenti alle necessità concrete della società, inviando le sue suore infermiere per l’assistenza degli ammalati e degli anziani negli ospedali, nei ricoveri e a domicilio. Curò la preparazione professionale delle suore educatrici e infermiere, preoccupandosi che fossero qualificate, ma raccomandando al tempo stesso lo spirito di carità evangelica fino all’eroismo, sia nell’assistenza dei malati, sia nel compito educativo della gioventù. L’opera educativa e sociale da lui compiuta lo mise in evidenza tanto da essere definito vir caritatis nella proposta di nomina a vescovo di Treviso. Eletto nel 1850, dopo un decennio venne trasferito nella sua diocesi di Vicenza, che resse per ventotto anni, fino alla morte. Nel lungo episcopato nelle due diocesi sperimentò la complessità e i conflitti che percorsero la Chiesa durante il pontificato di Pio IX. 

Fin dall’inizio mise in atto un vasto programma di rinnovamento culturale e pastorale, sviluppando quella scelta preferenziale che lo aveva caratterizzato durante gli anni di sacerdozio: la formazione del clero, della gioventù e del popolo, e il servizio ai più deboli della società, poveri e sofferenti. In entrambe le diocesi compì la visita pastorale, percorrendo chilometri a piedi o con la mula, per raggiungere i paesini di montagna che non avevano mai visto un vescovo. A Vicenza indisse il Sinodo diocesano che non veniva celebrato dal 1689; curò la formazione del clero, operando la riforma degli studi e della disciplina nel seminario; contribuì alla diffusione della stampa cattolica e appoggiò il nascente Movimento cattolico; contribuì alla fondazione di un’associazione di sacerdoti per la predicazione degli esercizi spirituali ai fedeli: le missioni al popolo. Ebbe una cura speciale per la formazione dei maestri elementari e un impegno particolare per rendere effettivo l’obbligo della frequenza scolastica dei bambini. Riorganizzò le scuole di dottrina cristiana, per l’istruzione religiosa e la catechesi della gioventù; raccomandò ai sacerdoti di servirsi della collaborazione dei laici, invitando i preti a preparare i padri di famiglia e quanti ricoprivano un ruolo direttivo, a essere altrettanti catechisti. Organizzò un piano di assistenza ai poveri, istituendo in tutte le parrocchie un’associazione che doveva raccogliere i mezzi e distribuirli a domicilio ai veri bisognosi, per bandire il più possibile l’accattonaggio.

Il popolo lo sentì subito dalla sua parte, e lo chiamava «il vescovo dei poveri». Quanto egli fosse sensibile a questo argomento, lo dimostrano i continui riferimenti al problema della povertà, nelle sue pastorali e circolari. Ripeteva spesso: «Il sovrappiù dei facoltosi è patrimonio dei poveri; chi lo tiene per sé insulta la provvidenza, danneggia la società, ruba l’altrui». Appena giunto a Treviso, si recò all’ospedale a visitare i malati, e trovando insufficiente la presenza di un unico sacerdote, si offrì come secondo cappellano per l’assistenza spirituale e materiale ai degenti, sostenendo i turni di giorno e di notte. Altrettanta attenzione ebbe per i preti più bisognosi. Da giovane aveva fatto parte del movimento vicentino di sostegno vicendevole dei preti; eletto vescovo, istituì nelle due diocesi la Congregazione di mutua carità di sacerdoti, per l’aiuto e l’assistenza di quelli poveri, anziani e infermi. Morì a ottantacinque anni il 4 marzo 1888. di Albarosa Ines Bassani, Postulatore

L’Osservatore Romano, 19 novembre 2014.

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