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Quei secondini dal “cuore nero” che non sanno di custodire qualcosa

Quei secondini dal “cuore nero” che non sanno di custodire qualcosaAd Opera, un uomo di 39 anni, un rumeno, si suicida in carcere per essere stato condannato all’ergastolo, e alcuni – pochi – agenti di polizia penitenziaria scrivono su facebook commenti vergognosi: “Meno uno”, “Un rumeno in meno”. Una storiaccia. Ci sarà un’inchiesta. Ci saranno dei colpevoli. Ci saranno condanne. Per ora c’è un morto e persone felici che lo sia. E l’orrore aggiunto è che queste persone sono deputate alla custodia di uomini come quello che si è ammazzato. Questa è la notizia di cronaca.
La prima cosa che mi viene in mente è che abbiamo un nuovo deterrente contro la criminalità. Non è la virtù, non è la fede, non è la scuola, non è la famiglia: è la paura di cosa ti aspetta se finisci dentro. Luogo di detenzione, certo. Ma anche luogo di recupero. Se un nostro figlio sbaglia – sbaglia grosso e finisce in galera – di cosa dobbiamo avere paura? Del male che ha fatto? Del dolore che ha procurato? Sarebbe solo giusto, normale. Ma se devo aver paura di cosa gli accadrà lì dentro, c’è qualcosa che non va. So che è una prigione, non sto parlando della privazione di diritti. Parlo della privazione di umanità. Ciò che c’era su facebook è stato cancellato come certe scritte indecenti sui muri, e hanno fatto bene. E io sono qui che non so da che parte rivoltare la notizia per cercare di scusare le guardie: lo stress di un lavoro logorante come quello della guardia penitenziaria, può giustificare frasi da aguzzini? Vorrei fosse una domanda retorica, a cui si sa come rispondere. Leggo alcune giustificazioni che dicono addirittura essere necessario avere un “core nero” per fare questo lavoro. Davvero per fare l’agente penitenziario devi avere nel curriculum il “core nero”? Un agente di custodia non è un impiegato qualunque. Tutti i lavori sono una vocazione, ma alcuni di più. Se il cuore è nero, dico, non occuparti di vite macchiate perché avrai bisogno di forza ma non violenza. Vicino a un un uomo debole ce ne vuole uno forte, non uno cattivo. Se mio figlio fosse un assassino vorrei che accanto gli stesse un uomo, non un “core nero”. Non è civiltà questa, non è umano questo. Dire, come giustificazione, che per fare la guardia ci vuole un “core nero” vuol dire essere complici, vuol dire preparare il terreno di cultura della violenza.
La forza di una civiltà si vede da come difende i deboli, non da come si arrende ai forti. Una civiltà vera ha una cultura che non tocca i deboli ma li custodisce. I deboli, sia chiaro, non sono solo gli innocenti e non sono solo quelli di una razza. Un delinquente, un assassino a cui hanno appena dato l’ergastolo, è debole. Più debole di chi ha le chiavi della sua cella. Non tanto tempo fa Papa Francesco ha parlato dell’ergastolo dicendo che andava abolito perché era come una pena di morte “nascosta”. Forse quell’uomo di 39 anni sapeva di cosa stava parlando il Papa, ma le guardie lo sapevano? No. A guardare facebook, quelle guardie – quelle guardie di custodia – parevano festeggiare. Se perdessi qualcosa che dovevo custodire mi sentirei male, non festeggerei. Ma quelle guardie sapevano di custodire qualcosa? E allora perché non sanno di aver perso qualcosa? Un romeno, non è un uomo? Un ergastolano, non è un uomo? Chi siamo quando entriamo in galera? Se non puoi permetterti un avvocato decente per rendere meno pesanti i tuoi sbagli, cosa succede? C’era una risposta a queste domande tra i post di facebook di quegli agenti? Spero che nei loro “cori neri” ci sia una risposta, se non bianca, almeno grigia.

Di Don Mauro Leonardi

Articolo tratto da Ilsussidiario.net

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