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Quando Teresa di Lisieux fece ricorso a Papa Leone XIII e rimase molto sorpresa….

Quando Teresa di Lisieux fece ricorso a Papa Leone XIII e rimase molto sorpresa….

Tre giorni dopo il viaggio di Bayeux, dovetti farne uno molto più lungo, quello alla Città Eterna! Ah, che viag­gio! Mi ha istruita di più da solo, che non i lunghi anni di stu­dio; mi ha mostrato come sia vano tutto ciò che passa, e come tutto sia afflizione di spirito sotto il sole! Eppure, ho visto del­le cose bellissime, ho contemplato le meraviglie dell’arte e del­la religione, soprattutto ho camminato sulla terra stessa dei santi Apostoli, la terra pervasa dal sangue dei martiri, e l’anima mia si è dilatata a contatto con le cose sacre…

Santa Teresina Leone XIII

Sono felice d’essere stata a Roma, ma capisco le persone di mondo le quali pensarono che Papà mi facesse fare questo grande viaggio per cambiare le mie idee di vita religiosa; c’era, in realtà, di che scuotere una vocazione poco solida. Non avendo mai vissuto in mezzo a gente di gran mondo, Celina ed io ci tro­vammo in mezzo all’aristocrazia che componeva quasi da sola tutto lo stuolo dei pellegrini. Ben lungi dall’abbagliarci, tutti quei titoli e quei «de» ci parvero fumo e soltanto fumo. Da lon­tano mi avevano gettato, qualche volta, un po’ di polvere negli occhi, ma da vicino vidi che «tutto ciò che brilla non è oro», e ho capito la parola della Imitazione: «Non correte dietro a quell’ombra che si chiama un gran nome, non desiderate legami numerosi, e nemmeno la particolare amicizia di alcuno». Capii che la grandezza vera si trova nell’anima e non nel nome, poiché, come dice Isaia: «il Signore darà un altro nome ai suoi eletti», ed anche san Giovanni dice che «il vincitore riceverà una pietra bianca sulla quale è scritto un nome nuovo che nessuno conosce, se non colui che lo riceve». Li sapremo dunque in Cielo, i nostri titoli di nobiltà. Allora ognuno rice­verà la lode che merita, e colui che avrà voluto essere il più povero in terra, il più dimenticato per amor di Gesù, proprio lui sarà il primo, più nobile e più ricco di tutti gli altri.

157 – Un’altra esperienza che feci riguarda i sacerdoti.

Non avendo vissuto nella loro intimità, non potevo capire lo scopo principale della riforma del Carmelo. Pregare per i peccatori mi rapiva, ma pregare per le anime dei preti che io credevo pure più del cristallo, mi pareva sorprendente! Ah! ho capito la mia vocazione in Italia e non è stato andar troppo lontano per una conoscenza tanto utile! Per un mese ho vissuto con molti santi sacerdoti e ho visto che, se la loro dignità sublime li innalza al di sopra degli angeli, essi sono tuttavia uomini deboli e fragili Se dei santi preti che Gesù chiama nel Vangelo «il sale della terra» mostrano nella loro condotta che hanno un grande bisogno di preghiere, che dobbiamo dire dei tiepidi? Gesù non ha detto anche: «se il sale diviene scipito, con che cosa lo rafforzeremo?». Oh, Madre! Com è bella la vocazione che ha per scopo di conservare il sale destinato alle anime! È la vocazione del Carmelo, poiché il fine unico delle nostre preghiere e dei nostri sacrifici è d’essere apostoli degli apostoli, pregando per essi mentre evangelizzano le anime con le parole e soprattutto con gli esempi… Bisogna che mi fermi, se continuassi su que­sto argomento non finirei più!

158 – Madre mia, le racconterò il mio viaggio con vari particolari: le chiedo scusa se ne dirò troppi, non rifletto prima di scrivere, e lo faccio in tante volte diverse, a causa del mio poco tempo libero, che il mio racconto le parrà forse noioso. Mi consola pensare che in Cielo le riparlerò delle grazie che ho ricevute, e che potrò farlo, allora, in termini gradevoli e attraenti… Più niente interromperà i nostri intimi sfoghi e con uno sguardo solo lei avrà capito tutto. Ahimè! poiché debbo usare ancora il linguaggio della terra triste, cercherò di farlo con la semplicità di una bambina piccola, la quale conosce l’amore della mamma! Sette novembre: i pellegrini partirono da Parigi, ma Papà ci aveva condotte li qualche giorno prima per farci visi­tare la città. Una mattina alle tre attraversai Lisieux ancora addormentata; molte impressioni mi passarono nell’anima. Andavo verso l’ignoto e grandi cose mi attendevano là… Papà era gaio; quando il treno si mise in moto, egli cantò un vecchio ritornello: «Roule, roule, ma diligence, nous voili sur le grand chemin». Arrivati a Parigi nella mattinata, cominciammo subi­to a visitarla. ll Babbo nostro caro si stancò per farci piacere, e così in quattro e quattr’otto avemmo visto tutte le meraviglie della capitale. Per me ne trovai una sola che mi rapisse, e fu «Nostra Signora delle Vittorie». Ah, quello che ho provato ai piedi di lei, non lo saprei dire… Le grazie che mi concedette mi commossero tanto profondamente che soltanto le lacrime espressero la mia felicità, come nel giorno della prima Comu­nione… La Santa Vergine mi fece sentire che era stata proprio lei a sorridermi e guarirmi. Ho capito che vegliava su me, che ero sua figlia, e così potevo chiamarla soltanto «Mamma», per­ché questo nome mi pareva ancor più tenero che quello di «Madre». Con quanto fervore l’ho pregata di custodirmi sem­pre e di attuare presto il mio sogno nascondendomi all’ombra del suo manto verginale! Era questo uno dei primi desideri di bambina. Crescendo, avevo capito che nel Carmelo avrei potu­to trovare davvero il mantello della Santa Vergine, e verso quella montagna fertile tendevano tutti i miei desideri. Supplicai ancora Nostra Signora delle Vittorie di allonta­nare da me tutto ciò che avrebbe potuto offuscare la mia purezza; non ignoravo che in un viaggio come quello d’Italia ci sarebbero state molte cose atte a turbarmi; soprattutto perché non conoscevo il male temevo di scoprirlo, non avendo ancora sperimentato che «tutto è puro per i puri», e che l’anima sem­plice e dritta non vede male in nulla, poiché in realtà il male esiste soltanto nei cuori impuri e non negli oggetti insensibili. Pregai anche san Giuseppe affinché vegliasse su me; fin da quando ero bimba avevo avuto per lui una devozione che si confondeva col mio amore per la Madonna. Ogni giorno dice­vo la preghiera: «O san Giuseppe, padre e protettore dei ver­gini»; così intrapresi senza timore il mio viaggio lontano, ero protetta così bene che mi pareva impossibile aver paura.

159 – Dopo esserci consacrate al Sacro Cuore

Nella basilica di Montmartre, partimmo da Parigi il lunedi 7 di mattina li, ben presto avevamo fatto conoscenza con le persone del pelle­grinaggio. Io così timida che generalmente osavo appena parla­re, mi trovai completamente svincolata da quel difetto imba­razzante; con mia grande sorpresa parlavo liberamente con tutte le grandi signore, i sacerdoti e perfino con Monsignor Vescovo di Coutances. Mi pareva di aver vissuto sempre in quell’ambiente. Eravamo, credo, benvolute da tutti, e Papà sembrava orgoglioso delle sue due figlie; ma se lui era fiero di noi, noi lo eravamo egualmente di lui, perché non c’era in tut­to il pellegrinaggio un signore più bello né più distinto del mio caro Re; a lui piaceva vedersi vicine Celina e me: spesso quan­do non eravamo in carrozza, e che io mi allontanavo da lui, mi chiamava perché io gli dessi il braccio come a Lisieux… Mons. Révérony teneva d’occhio accuratamente tutti i nostri atti, vedevo spesso che ci guardava da lontano; a tavola, quando non ero di faccia a lui, trovava modo di chinarsi per vedermi e ascoltare ciò che dicevo. Senza dubbio voleva conoscermi per sapere se veramente ero capace di essere carmelitana: penso che sia rimasto soddisfatto del suo esame, perché alla fine del viaggio parve molto ben disposto verso me, ma a Roma non mi fu affatto favorevole, come dirò fra breve.

160 – Prima di arrivare alla «Città Eterna», meta del nostro pellegrinaggio, ci fu concesso di contemplare grandi meraviglie. Dapprima la Svizzera, con le sue vette che si perdono tra le nubi, con le cascate gentili zampillanti in mille modi diversi, le valli profonde colme di felci giganti e di eriche rosa. Ah, Madre mia cara, queste bellezze della natura profuse così largamente, hanno fatto tanto bene all’anima mia! Come l’hanno innalzata verso Colui che si è compiaciuto di gettare tanti capolavori sopra una terra d’esilio destinata a durare un giorno solo! Non avevo occhi bastanti per guardare. In piedi, allo sportello, rima­nevo quasi senza respiro; avrei voluto essere ai due lati del vago­ne perché, voltandomi, vedevo paesaggi incantevoli e affatto diversi da quelli che si stendevano dinanzi a me. Talvolta ci trovavamo in vetta a una montagna, ai nostri piedi si aprivano precipizi dei quali lo sguardo non toccava il fondo: parevano pronti a inghiottirci; in alto un villaggio incan­tevole con le sue casupole montanine e il campanile sul quale ondulavano mollemente pochi cirri bianco-lucenti. Lontano, un lago vasto, dorato dagli ultimi raggi; le acque pure e quiete si coloravano di azzurro e dei fuochi del tramonto, e presentavano ai nostri sguardi attoniti lo spettacolo più poetico e più affasci­nante che si possa vedere. In fondo all’orizzonte vasto si scorge­vano le montagne, le cui linee incerte sarebbero sfuggite ai nostri occhi se le cime nevose orlate di luce non avessero aggiunto un fascino di più al bel lago che ci rapiva…

161 – Guardando tutte queste bellezze, mi nascevano nell’anima pensieri profondi. Mi pareva di capire già la gran­dezza di Dio e le meraviglie del Cielo. La vita religiosa mi appariva tal quale è con i suoi obblighi e i suoi sacrifici minuti consumati nell’ombra. Capivo quanto fosse facile ripiegarsi sopra se stessi, dimenticare il fine sublime della propria voca­zione, e mi dicevo: più tardi, nell’ora della prova, quando, pri­gioniera nel Carmelo, non potrò contemplare altro che un angolo di stelle, ricorderò ciò che vedo oggi: questo pensiero mi darà coraggio, dimenticherò facilmente i poveri miei inte­ressi vedendo la grandezza e la potenza del Dio che intendo amare unicamente. Non avrò la disgrazia di attaccarmi a delle pagliuzze, dopo che «il mio cuore ha presentito ciò che Gesù riserva a coloro che l’amano!».

162 – Dopo avere ammirato la potenza di Dio

Potei anche ammirare quella che ha concessa alle creature. La prima città d’Italia che visitammo fu Milano. Visitammo fino nei minimi particolari il Duomo tutto di marmo bianco, col suo popolo di statue quasi innumerevoli. Celina ed io eravamo intrepide, le prime sempre, e immediatamente al seguito di Monsignor Vescovo, per vedere tutto in fatto di reliquie, e udir bene le spiegazioni: così, mentre egli offriva il Santo Sacrificio sulla tomba di san Carlo, noi con Papà eravamo die­tro l’altare, appoggiavamo la testa all’urna che racchiude il corpo del Santo rivestito degli abiti pontificali. Così accadeva dappertutto (eccezion fatta, s’intende, per i luoghi ove la dignità del Vescovo non permetteva a lui di arrampicarsi, per­ché allora sapevamo staccarci subito da «Sa Grandeur»). Lasciando le signore timide a coprirsi volto ed occhi dopo aver scalato le prime torrette campanarie che fanno corona alla cat­tedrale, seguimmo i pellegrini più arditi ed arrivammo fino alla punta dell’ultimo campanile di marmo, dal quale avemmo il piacere di vedere ai nostri piedi la città di Milano: la gente lag­giù somigliava a un minuscolo formicaio. Discese dal nostro piedistallo, cominciammo le passeggiate in carrozza che dove­vano durare un mese e saziarmi per sempre del mio desiderio di correre senza fatica!

163 – Il camposanto ci rapì ancor più che la cattedrale, tut­te le statue di marmo bianco alle quali un cesello del genio sem­bra aver dato vita, sono sparse sulla terra ampia dei morti con una certa negligenza, ciò che, secondo me, aumenta il loro fasci­no. Si è tentati di consolare i personaggi ideali i quali ci stanno intorno. La loro espressione è così vera, il loro dolore così calmo e rassegnato, che non si può fare a meno di riconoscere i pensie­ri immortali dai quali erano mossi i cuori degli artisti quando eseguirono questi capolavori. Qui una bambina getta fiori sulla tomba dei genitori, par che il marmo abbia perduto qualsiasi peso, e i petali lievi scivolano tra le dita infantili, già il vento li disperde, e muove anche il velo sottile delle vedove, e i nastri che ornano i capelli delle fanciulle. Papà era rapito quanto noi; in Svizzera si era sentito stanco, ma ora, ridivenuto gaio, godeva la visione bella che ci era concesso contemplare; la sua anima di artista si rivelava nelle espressioni di fede e di ammirazione che passavano sul suo bel volto.

164 – Un vecchio signore (francese), il quale senza dub­bio non aveva animo altrettanto poetico, ci guardava un po’ di sbieco e diceva con un certo cattivo umore, quasi gli dispiaces­se di non poter partecipare alla nostra ammirazione: «Ah, come sono entusiasti i francesi!». Credo che quel povero signo­re avrebbe fatto meglio se fosse rimasto a casa sua, perché non pareva soddisfatto del viaggio, spesso era vicino a noi, e si lamentava, era scontento delle vetture, degli alberghi, delle persone, delle città, insomma, di tutto. Papà con la sua solita grandezza d’animo cercava di consolarlo, gli offriva il suo posto, ecc., lui si trovava bene sempre e dovunque, poiché era di un carattere nettamente opposto a quello del suo scomodo vicino. Ah, quante ne abbiamo viste di genti varie, gli uni diversi dagli altri, e quale campo di studio interessante il mon­do, quando si è prossimi a lasciarlo!

A Venezia, completo cambiamento di scena: invece del chiasso delle città grandi, emergono dal silenzio soltanto il grido dei gondolieri e il murmure delle acque agitate dai remi. Venezia ha il suo fascino, ma io la trovo triste. ll palazzo dei dogi è splendido, tuttavia è triste anch’esso, con i suoi apparta­menti vasti che sfoggiano oro, legni, marmi tra i più preziosi, e le pitture dei maestri più grandi. Da lungo tempo le sue volte sonore non echeggiano più della voce dei governatori che pro­nunciava sentenze di vita e di morte nelle sale che abbiamo attraversate. Hanno cessato di soffrire i prigionieri sventurati chiusi dai dogi nelle carceri e nei nascondigli sotterranei. Visi­tando quelle prigioni paurose, mi credevo ai tempi dei martiri, e avrei voluto poterci rimanere per imitarli! Bisognò invece uscire prontamente, e passare sul «Ponte dei sospiri», chiama­to così a causa dei sospiri di sollievo che emettevano i condan­nati vedendosi liberati dall’orrore dei sotterranei ai quali pre­ferivano la morte…

166 – Dopo Venezia andammo a Padova, venerammo la lingua di sant’Antonio, poi a Bologna, e vedemmo santa Cate­rina che conserva l’impronta del bacio di Gesù Bambino. Quan­ti particolari interessanti potrei dare su ciascuna città e riguar­do a mille circostanze minute del nostro viaggio! Ma non fini­rei più, e perciò scriverò soltanto i punti salienti. Con gioia lasciai Bologna, la quale mi era diventata insopportabile a causa degli studenti di cui è piena e che for­mavano siepe quando avevamo la sventura di uscire a piedi; e a causa soprattutto del piccolo incidente avuto con uno di essi, fui felice di prendere la via di Loreto. Non sono sorpre­sa che la Vergine Santa abbia scelto quel luogo per trapiantarvi la sua casa benedetta; la pace, la gioia, la povertà vi regnano sovrane; tutto è semplice e primitivo, le donne hanno conser­vato il loro garbato costume italiano e non hanno, come quelle di altre città, adottato la moda di Parigi; insomma, Loreto mi rapì!

167 – Che dirò della santa Casa?

La mia emozione era profonda mentre mi trovavo sotto il tetto medesimo della sacra Famiglia, contemplando i muri sui quali Gesù aveva posati i suoi sguardi divini, mentre camminavo sulla terra che san Giu­seppe aveva bagnato col suo sudore, ove Maria aveva portato Gesù tra le braccia dopo averlo portato nel suo seno virginale. Ho visto la cameretta ove l’angelo discese presso la Vergine Santa… Ho deposto il mio rosario nella scodella di Gesù Bam­bino… Come sono incantevoli questi ricordi! Ma la nostra consolazione più grande fu ricevere Gesù stesso nella sua casa ed essere il tempio vivo di lui nel luogo che egli aveva onorato con la sua presenza. Secondo un’usanza italiana, il ciborio si conserva in ciascuna chiesa sopra un altare solo, e li soltanto si può ricevere la Comunione; quell’altare era nella basilica stessa ove si trova la santa Casa, racchiusa come un diamante prezioso in uno scrigno di marmo bianco. Ciò non bastò per la nostra felicità. Noi volevamo ricevere la Comunione nel diamante stesso e non già nello scrigno.. Papà, con la sua consueta dolcezza fece come gli altri, ma Celina e io andammo a trovare un sacer­dote che ci accompagnava dovunque e che proprio allora si preparava a celebrare la Messa nella Santa Casa, per un privi­legio speciale. Chiese due piccole ostie che depose sulla patena con la sua grande ostia, e lei capisce, Madre mia cara, quale fu il nostro rapimento di far tutte e due la santa Comunione in quella Casa benedetta! Fu una felicità celestiale che le parole non possono tradurre. Che sarà dunque quando riceveremo la Comunione nella dimora eterna del Re dei Cieli? Allora non vedremo più finire la gioia nostra, non ci sarà più la tristezza della partenza, e per portare via un ricordo non sarà necessa­rio grattare furtivamente i muri santificati dalla presenza divi­na, poiché la casa sua sarà nostra per l’eternità. Egli non vuole darci la casa terrena, si contenta di mostrarcela per farci amare la povertà e la vita nascosta; quella che ci riserva è il suo Palaz­zo di gloria ove non lo vedremo più nascosto sotto l’apparenza di un bambino o di una ostia bianca, ma tale quale è, nel suo splendore infinito.

168 – Ora mi resta da parlare di Roma, di Roma meta del nostro viaggio, dove credevo d’incontrare la consolazione, e trovai la croce! Al nostro arrivo era notte, ed eravamo addor­mentate, ci risvegliò il grido degli addetti alla stazione: «Roma, Roma». Non era un sogno, ero a Roma! Il primo giorno trascorse fuori dalle mura, e forse fu il più delizioso, perché tutti i monumenti hanno conservato la loro impronta antica, mentre nel centro della città ci si potreb­be credere a Parigi vedendo la magnificenza degli alberghi e dei negozi. Quella passeggiata nella campagna romana mi ha lasciato un ricordo carissimo. Non parlerò dei luoghi che abbia­mo visitati, esistono abbastanza libri che li descrivono per este­so, ma soltanto delle principali impressioni che provai. Una delle più dolci fu quella che mi fece trasalire alla vista del Colosseo. La vedevo finalmente quell’arena ove tanti martiri avevano dato il sangue per Gesù; e già mi disponevo a baciar la terra che essi avevano consacrata, ma quale delusione! Il centro è soltanto un ammasso di ruderi che i pellegrini posso­no guardare e basta, perché uno sbarramento impedisce di penetrarvi, del resto nessuno prova la tentazione di entrare in mezzo a quelle rovine. Eravamo dunque venute a Roma per non discendere nel Colosseo? Mi pareva impossibile, non ascol­tavo più le spiegazioni della guida, avevo un pensiero solo: calarmi nell’arena… Vedendo un operaio che passava con una scala, fui li li per chiedergliela, fortunatamente non misi in atto la mia idea perché mi avrebbe presa per pazza. E detto nel Vangelo che Maddalena, rimanendo sempre vicina alla tomba, e abbassandosi più volte, finì per vedere due angeli. Come lei, pur avendo riconosciuto l’impossibilità di attuare i miei desideri, continuai ad abbassarmi verso le rovine tra le quali volevo discendere; finalmente, non vidi angeli, ma quello che cercavo, gettai un grido di gioia, e dissi a Celina: «Svelta, andia­mo, ce la facciamo a passare!». Subito scavalcammo la staccionata che in quel punto toccava i ruderi, ed eccoci a scalar le rovine che si sgretolavano sotto i nostri passi. Papà ci guardava meravigliato per la nostra audacia, e ci disse di tornare indietro, ma le due fuggitive non udivano più nulla; come i guerrieri sentono crescere il coraggio in mezzo al pericolo, così la nostra gioia ingrandiva in proporzione alla diffi­coltà per raggiungere l’oggetto dei nostri desideri. Celina, più previdente di me, aveva ascoltato il acerone e ricordandosi che egli aveva segnalato un pezzo di pavimento segnato da una cro­ce come quello su cui combattevano i martiri, si mise a cercarlo; lo trovò ben presto, c’inginocchiammo su quella terra sacra, le nostre anime si fusero in un’unica preghiera. Mi batteva forte il cuore quando avvicinai le labbra alla polvere arrossata dal san­gue dei primi cristiani, chiesi la grazia d’essere martire anch’io per Gesù, e sentii in fondo al cuore che la mia preghiera era esaudita. Tutto questo fu compiuto in brevissimo tempo; dopo aver preso qualche pietra, ritornammo verso le mura in rovina per ricominciare la nostra impresa rischiosa. Papà vedendoci così felici non poté rimproverarci, e vidi bene che era orgoglio­so del nostro ardimento… Il buon Dio ci protesse visibilmente, perché i pellegrini, essendo un po’ distanti, non si accorsero della nostra assenza, occupati com’erano a guardare le arcate magnifiche sulle quali la guida faceva notare «i graziosi corni­chons e i cupides posati su di essi»; in tal modo né lui né «mes­sieurs les abbés» conobbero la gioia che ci empiva il cuore.

169 – Anche le catacombe mi hanno lasciato una impres­sione molto dolce: sono tali quali me le ero figurate leggendone la descrizione nella vita dei martiri. Dopo aver passato là una parte del pomeriggio, mi sembrava di esserci soltanto da qualche attimo, tanto mi appariva profumata l’atmosfera che vi si respira. Bisognava bene portare a casa qualche ricordo delle catacombe, così Celina e Teresa lasciarono che la proces­sione si allontanasse un poco, e poi si calarono insieme fino in fondo all’antica tomba di santa Cecilia, e presero della terra consacrata dalla presenza di lei. Prima del viaggio a Roma, non avevo alcuna devozione particolare per quella Santa, ma, visi­tando la casa trasformata in chiesa, luogo del suo martirio, e venendo a sapere che ella è stata proclamata regina dell’armo­nia non già a causa della sua bella voce né del suo ingegno per la musica, bensì in memoria del canto verginale ch’ella fece udire allo Sposo celeste nascosto in fondo al suo cuore, sentii per lei più che una devozione: una vera tenerezza d’amica… Ella divenne la mia Santa prediletta, la mia confidente intima… Tutto in lei mi rapisce, soprattutto il suo abbandono, la sua fiducia illimitata che l’hanno resa atta a verginizzare anime, le quali non avevano mai desiderato altre gioie se non quelle del­la vita presente. Santa Cecilia è simile alla sposa dei cantici, in lei vedo «un coro in un campo d’eserciti». La sua vita non è stata se non un canto armonioso in mezzo anche alle prove più grandi, e ciò non mi stupisce, perché «Il santo Vangelo riposava sul suo cuore!», e nel suo cuore era lo Sposo delle Vergini.

170 – La visita alla chiesa di Sant’Agnese mi fu di gran­de dolcezza, era un’amica d’infanzia che andavo a trovare nella sua casa, le parlai lungamente di colei che porta così bene il suo nome, e feci tutti i miei sforzi per ottenere una reliquia di quest’angelica Patrona della mia Madre carissima, avrei voluto portarla a lei, ma non ci fu possibile avere altro che una pie­truzza rossa staccatasi da un ricco mosaico la cui origine risale al tempo di sant’Agnese e che lei stessa dovette guardare spes­so. Non era incantevole che l’amabile Santa ci desse ella stessa ciò che cercavamo e che ci era proibito di prendere? L’ho con­siderato sempre come un pensiero delicato e una prova di quell’amore col quale la dolce sant’Agnese considera e proteg­ge la Madre mia carissima!

171 – Trascorremmo sei giorni visitando le principali mera­viglie di Roma, e il settimo giorno vidi la più grande: «Leone XIII». Quel giorno lo desideravo e lo temevo, da esso sarebbe dipesa la mia vocazione, perché la risposta che dovevo ricevere da Monsignore non era arrivata, e io avevo saputo da una let­tera sua, Madre, che egli non era più molto ben disposto verso di me, così l’unica tavola di salvezza era il permesso del Santo Padre… ma per ottenerlo occorreva chiederlo, bisognava osare di parlare «al Papa» davanti a tutti, questo pensiero mi faceva tremare; quel che ho sofferto prima dell’udienza, lo sa soltanto il buon Dio, con la mia cara Celina. Mai dimenticherò la parte che ella prese a tutte le mie prove, pareva che la vocazione mia fosse sua. (Il nostro affetto reciproco veniva notato dai sacer­doti del pellegrinaggio: una sera eravamo in un gruppo tanto numeroso che le sedie mancavano, allora Celina mi prese sulle ginocchia e ci guardavamo con tanto affetto, che un sacerdote esclamò: «Come si vogliono bene! Ah, queste due sorelle non potranno separarsi mai!». Sì, è vero, ci amavamo, ma il nostro affetto era tanto puro e forte, che il pensiero di separarci non ci turbava affatto, perché sentivamo che niente, nemmeno l’oceano, avrebbe potuto allontanarci l’una dall’altra… Serena­mente Celina vedeva la mia navicella che gettava l’ancora sulla riva del Carmelo; lei si rassegnava a restare nel mare burrasco­so del mondo per quanto tempo Dio lo volesse, sicura di arri­vare anche lei alla sponda ambita…).

172 – Domenica 20 novembre ci vestimmo secondo il cen­moniale del Vaticano (di nero, con un velo di merletto in testa) e decorate da una grande medaglia di Leone XIII attaccata a un nastro azzurro e bianco, facemmo il nostro ingresso in Vati­cano, nella cappella del Sommo Pontefice. Alle otto lo vedem­mo entrare per celebrare la santa Messa: fu un’emozione profonda. Benedisse i pellegrini numerosi riuniti intorno a lui, salì gli scalini dell’altare, e ci mostrò, con la sua pietà degna del Vicario di Gesù, che era veramente «il Santo Padre». ll cuore mi batteva forte, e pregavo ardentemente mentre Gesù discen­deva tra le mani del suo Pontefice; comunque, ero piena di fidu­cia, il Vangelo di quel giorno portava le parole splendide: «Non temere, piccolo gregge, perché è piaciuto al Padre mio di darti il suo regno». E io non temevo nulla, speravo che il regno del Carmelo mi appartenesse presto, non pensavo allora a quelle altre parole di Gesù: «Vi preparo il mio regno come il Padre mio l’ha preparato a me»; cioè, vi riservo croci e prove, e in tal modo sarete degni di possedere il regno che sospirate; poiché è stato necessario che il Cristo soffrisse, ed entrasse così nella glo­ria, se desiderate aver posto accanto a lui, bevete il calice che egli stesso ha bevuto! Questo calice mi fu presentato dal San­to Padre, e le lacrime mie si confusero con la bevanda amara che mi veniva offerta.

173 – Dopo la Messa di ringraziamento che fece seguito a quella di Sua Santità, ebbe inizio l’udienza. Leone XIII era assiso sopra una grande poltrona, vestito semplicemente con una tonaca bianca, una mantellina dello stesso colore, e aveva sulla testa uno zucchetto. Intorno a lui stavano i cardinali, gli arcivescovi, i vescovi, ma io non li vidi se non in gruppo, occu­pata com’ero unicamente del Santo Padre; passammo dinanzi a lui in processione, ciascun pellegrino s’inginocchiava a tur­no, baciava mano e piede di Leone XIII, riceveva la benedizio­ne, e due guardie nobili gli facevano cenno secondo l’etichetta, per avvertirlo che era tempo di alzarsi (intendo dire che avver­tivano il pellegrino, mi spiego così male che si potrebbe pensa­re che avvertissero il Papa). Prima di penetrare nell’apparta­mento pontificio ero ben decisa a parlare, ma mi sentii manca­re il coraggio quando vidi a destra del Santo Padre «Monsi­gnor Révérony»! Quasi nel medesimo istante ci fu detto da parte sua che era proibito parlare a Leone XIII, l’udienza si sarebbe prolungata troppo. Mi voltai verso Celina cara, per sapere il suo parere: «Parla!», mi disse. Un minuto dopo ero ai piedi del Santo Padre; baciai la pantofola, egli mi porse la mano, ma io, invece di baciarla, giunsi le mani mie e alzai ver­so lui gli occhi pieni di lacrime: «Santo Padre – dissi -, ho da chiedervi una grazia grande». Allora il Sommo Pontefice abbas­sò la testa verso me, in modo che il mio volto quasi toccava il suo, e vidi i suoi occhi neri e profondi fissarsi su di me, parve che penetrasse in fondo all’anima. «Santo Padre – dissi – in onore del vostro giubileo, permettetemi di entrare nel Carmelo a quindici anni!…».

174 – L’emozione certo mi fece tremare la voce, cosicché il Santo Padre, volgendosi a Monsignor Révérony, il quale mi guardava meravigliato e scontento, disse: «Non capisco molto bene». Se il buon Dio l’avesse permesso, sarebbe stato facile che Monsignor Révérony mi ottenesse ciò che desideravo, ma invece volle darmi la croce e non già la consolazione. «Beatissi­mo Padre – rispose il Vicario Generale – è una bambina che desidera entrare nel Carmelo a quindici anni, ma i superiori stanno esaminando la questione». «Ebbene, figlia – rispose il Santo Padre guardandomi con bontà -fate ciò che vi diranno i superiori». Allora, appog­giando le mani sulle sue ginocchia, tentai un ultimo sforzo e dissi con voce supplice: «Oh! beatissimo Padre, se voi diceste «sì, tutti sarebbero d’accordo!…». Mi guardò fissamente, e pronunciò queste parole appoggiando su ciascuna sillaba: «Bene… bene… Entrerete se Dio lo vorrà! . ..» -. (La sua espres­sione era così penetrante e convinta, che mi pare d’intenderlo ancora). Poiché la bontà del Santo Padre mi dava animo, volli parlare ancora, ma le due guardie nobili mi toccarono gentil­mente per farmi alzare; e vedendo che ciò non bastava, mi pre­sero per le braccia, e Monsignor Révérony le aiutò a sollevar­mi, perché io restavo ancora con le mani giunte appoggiate alle ginocchia di Leone XIII, e mi strapparono di peso dai suoi piedi… Nel momento in cui mi trasportarono via così, il Santo Padre posò la sua mano sulle mie labbra, poi l’alzò per bene­dirmi, allora gli occhi mi si empirono di lacrime, e Monsignor Révérony poté contemplare per lo meno altrettanti diamanti quanti ne aveva visti a Bayeux.

Le due guardie nobili mi portarono, per così dire, fino alla porta, e là una terza mi dette una medaglia di Leone XIII. Celina, che mi seguiva, era stata presente alla scena: commossa quasi quanto me, ebbe tuttavia il coraggio di chie­dere al Santo Padre una benedizione per il Carmelo. Monsi­gnor Révérony con tono contrariato rispose: «È già benedetto, il Carmelo». Il buon Santo Padre riprese con dolcezza: «Oh sì, è già benedetto!». Prima di noi Papà era venuto ai piedi di Leone XIII (con gli altri signori). Monsignor Révérony era stato molto benevolo verso lui, l’aveva presentato come il padre di due carmelitane. il Sommo Pontefice, in segno di particolare favore, posò la mano sulla testa venerabile del mio caro Re, e parve imprimere in lui così un sigillo misterioso, nel nome di colui che veramente egli rappresenta… Ah! Ora che è in Cielo, questo padre di quattro carmelitane, non è più la mano del Pontefice che riposa sulla sua fronte, profetizzandogli il marti­rio… E la mano dello Sposo delle Vergini, del Re della gloria che fa risplendere la testa del suo servo fedele, e più che mai quella mano adorata rimarrà sulla fronte che ha glorificata!

176 – Il mio Babbo caro rimase addolorato trovando me tutta in lacrime all’uscita dall’udienza, fece tutto ciò che poté per consolarmi, ma invano… In fondo al cuore sentivo una grande pace, poiché avevo fatto assolutamente tutto il possibi­le per corrispondere a ciò che Dio mi chiedeva, ma quella pace era nel fondo, e l’amarezza mi colmava l’anima, perché Gesù taceva. Pareva assente, niente rivelava la sua presenza. Anche in quel giorno il sole non osò risplendere, e il cielo bello d’Ita­lia, carico di nuvole cupe, pianse con me tutto il tempo. Ah! era finita, il mio viaggio non aveva più incanto per me, poiché lo scopo era fallito. Eppure, le ultime parole del Santo Padre avrebbero dovuto ben consolarmi: in verità, non erano una genuina profezia? Nonostante tutti gli ostacoli, quello che Dio misericordioso ha voluto si è compiuto. Ha permesso alle crea­ture di fare non ciò che volevano, bensì la volonta sua.

177 – Da qualche tempo mi ero offerta a Gesù Bambino per essere il suo giocattolino, gli avevo detto che usasse me non già come un balocco di quelli pregevoli (i bimbi si contentano di guardarli senza osar di toccarli), bensì come una pallina senz’alcun valore che egli poteva buttar per terra, spingere con i piedi, bucare) lasciare in un cantuccio o stringere al cuore, a piacimento suo; in una parola volevo divertire Gesù Bambino, fargli piacere, volevo abbandonarmi ai suoi capricci infantili… Aveva esaudito la mia preghiera. A Roma Gesù bucò il suo giocattolino, volle vedere cosa c’era dentro, e, dopo averlo visto, contento della sua scoperta, lasciò cadere la pallina e si addormentò… Che cosa fece duran­te il sonno dolce, e che cosa divenne la pallina abbandonata? Gesù sognò che giocava ancora col suo balocco lasciandolo e prendendolo volta a volta, e, dopo averlo fatto ruzzolare lonta­no, se lo stringeva al cuore senza permettere più che si allonta­nasse dalla sua manina…

178 – Lei capisce, Madre mia cara, quanto fosse triste la pallina vedendosi per terra. Tuttavia non rinunciavo a sperare contro tutte le speranze. Qualche giorno dopo l’udienza del Santo Padre, Papà andò a vedere il buon fratel Simeone, e trovò presso lui Monsignor Révérony, il quale fu amabilissimo. Papà gli rimproverò giocosamente di non avermi aiutata nella mia impresa difficile, poi narrò la storia della sua reginetta al fratello Simeone. Il venerando vecchio ascoltò il racconto con interesse vivo, prese perfino degli appunti, e disse, commosso: «Una cosa simile non si vede in Italia!». Credo che il colloquio facesse gran buona impressione a Monsignor Révérony: in seguito mi dimostrò ad ogni istante che finalmente era convin­to della mia vocazione.

179 – L’indomani del giorno memorabile, bisognò partire fin dalla mattina alla volta di Napoli e Pompei. In onore nostro il Vesuvio brontolò tutta la giornata, emettendo con le sue can­nonate, una colonna densa di fumo. Le tracce che ha lasciato sulle rovine di Pompei sono paurose, mostrano la potenza del Dio «che guarda la terra e la fa tremare, tocca le montagne, e le riduce in fumo». Mi sarebbe piaciuto passeggiare sola in mezzo alle rovi­ne, meditando sulla fragilità delle cose umane, ma la folla dei viaggiatori guastava in gran parte il fascino malinconico della città distrutta. A Napoli fu tutto il contrario, il gran numero delle pariglie rese magnifica la nostra passeggiata al monastero di San Martino situato sopra una collina alta che domina la città intera; purtroppo i cavalli mordevano il freno minuto per minu­to, e più d’una volta mi son vista all’ultima ora. Il cocchiere ave­va un bel ripetere continuamente la parola magica dei vetturini italiani: «A-ppippo, A-ppippo» (Ah Pippo, ah Pippo…)», i poveri cavalli volevano rovesciar la carrozza, finalmente, grazie alla protezione dei nostri angeli custodi, arrivammo al nostro albergo magnifico. Durante tutto il viaggio abbiamo abitato in alberghi principeschi, mai ero stata circondata da tanto lusso, è proprio il caso di dire che la ricchezza non dà la felicità, perché sarei stata più felice sotto un tetto di paglia con la speranza del Carmelo, che in mezzo a tappezzerie dorate, scaloni bianchi di marmi, tappeti vellutati, con l’amarezza nel cuore. L’ho ben capito, la gioia non la troviamo negli oggetti che ci stanno intor­no, bensì nel profondo dell’anima, possiamo averla in una pri­gione altrettanto bene che in un palazzo, la prova è che io sono più felice nel Carmelo, anche tra prove intime ed esteriori, che nel mondo, circondata dalle comodità della vita, e soprattutto dalle dolcezze del focolare paterno!

180 – Avevo l’anima immersa nella tristezza, tuttavia all’esterno mi mostravo la stessa, perché credevo che la suppli­ca fatta da me al Santo Padre fosse ignota agli altri; ben presto mi persuasi del contrario: ero rimasta sola con Celina nel vago­ne (gli altri pellegrini erano discesi al buffet durante i pochi minuti di fermata), vidi Monsignor Legoux, vicario generale di Coutances, che aprì lo sportello e mi guardò sorridendo, poi disse: «Ebbene, come va la nostra piccola carmelitana?». Capì allora che tutto il gruppo conosceva il mio segreto; per fortuna nessuno me ne parlò, ma mi resi conto, da come mi guardavano con simpatia, che la mia istanza non aveva fatto brutta impressione, anzi… Nella cittadina di Assisi, ebbi l’occasione di salire nella carrozza di Monsignor Révérony, favore che non fu concesso ad alcuna signora durante l’intero viaggio. Ed ecco in qual modo ottenni questo privilegio.

181 – Dopo aver visitato i luoghi profumati dalle virtù di san Francesco e di santa Chiara, avevamo visto per ultimo il monastero di Sant’Agnese, sorella di santa Chiara; avevo con­templato a mio piacimento la testa della Santa, quando, riti­randomi una delle ultime, mi accorsi che avevo perduto la mia cintura; la cercai in mezzo alla folla, un sacerdote ebbe pietà di me e mi aiutò, ma dopo che me l’ebbe trovata, lo vidi allonta­narsi, e rimasi sola a cercare perché, se la cintura c’era, impos­sibile metterla, mancava la fibbia… Finalmente la vidi brillare in un angolo; afferrarla e aggiustarla al nastro fu tutt’uno, ma la ricerca era stata lunga, perciò rimasi attonita quando mi ritrovai sola dinanzi alla chiesa; tutte le vetture erano sparite, fuorché quella di Monsignor Révérony. Che partito prendere? Dovevo correre dietro le carrozze che non vedevo più, espor­mi al rischio di perdere il treno e mettere il mio Babbo caro nell’inquietudine, oppure chiedere un posto nel calesse di Monsignor Révérony? Mi decisi per quest’ultima soluzione. Col piglio più garbato e meno impacciato possibile – nonostan­te il mio estremo impaccio – gli esposi la condizione difficile, e misi anche lui in diffiicoltà perché la sua vettura era gremita dai signori più autorevoli del pellegrinaggio, non c’era una briciola di posto; ma un signore cortesissimo si affrettò a scendere, mi fece salire al suo posto, e andò egli stesso modestamente accan­to al cocchiere. Somigliavo a uno scoiattolo in trappola, ed ero ben lungi dal sentirmi comoda, circondata così da tutti quei grandi personaggi, e soprattutto dal più temibile, in faccia al quale ero situata… E che tuttavia fu gentilissimo con me, e interruppe varie volte la conversazione con quei signori per parlarmi del Carmelo. Prima di arrivare alla stazione tutti i grandi personaggi tirarono fuori i loro grandi portafogli per dare la mancia al cocchiere (già pagato), io feci come loro e presi il mio minimo portamonete, ma Monsignor Révérony non mi permise di estrarne delle monetine, preferì darne lui una grossa per lui e per me.

Un’altra volta mi trovai accanto a lui in omnibus; fu ancor più benevolo, e mi promise che avrebbe fatto tutto il pos­sibile affinché io entrassi nel Carmelo. Pur mettendo un po’ di balsamo sulle mie piaghe, quei piccoli incontri non impediro­no che il viaggio di ritorno fosse per me ben meno piacevole che quello di andata, perché non avevo più la speranza «del Santo Padre», non trovavo più soccorso alcuno sulla terra che mi pareva un deserto arido, senz’acqua; tutta la speranza mia era nel buon Dio solo… stavo facendo esperienza che è meglio rivolgersi a lui che ai suoi santi…

183 – La tristezza dell’anima mia non m’impedì d’interes­sarmi vivamente ai luoghi che visitavamo. A Firenze fui felice di contemplare santa Maddalena de’ Pazzi in mezzo al coro delle carmelitane le quali ci aprirono la grata maggiore; poiché non sapevamo di poter godere di questo privilegio, e poiché molte persone desideravano far toccare le loro corone alla tomba della Santa, io sola riuscii a passare la mano attraverso la grata che la proteggeva, così tutti mi portarono dei rosari, ed ero ben fiera del mio compito. Bisognava che trovassi sem­pre il modo per toccar tutto, così nella chiesa di Santa Croce in Gerusalemme (a Roma) potemmo vedere alcuni frammenti della vera Croce, due spine ed un sacro chiodo racchiusi entro un magnifico reliquiario d’oro cesellato, ma senza vetro, perciò io trovai modo, venerando la reliquia preziosa, d’insinuare il mignolo in uno spazio del reliquiario, e potei toccare il chiodo che fu bagnato dal Sangue di Gesù. Fui veramente troppo audace. Ma il Signore vede il fondo dei cuori, sa che l’intenzio­ne mia era pura, è che per niente al mondo avrei voluto fargli dispiacere, agivo con lui da bambina che si crede tutto permes­so e considera come propri i tesori del Padre.

184 – Non riesco ancora a capire perché mai le donne siano tanto facilmente scomunicate in Italia, ad ogni piè sospinto ci veniva detto: «Non entrate qua… non entrate là, sareste scomunicate!». Ah povere donne, quanto disprezzo per loro! Eppure, sono ben più numerose degli uomini quelle che amano Dio, e durante la Passione di Nostro Signore le donne ebbero più coraggio degli Apostoli, poiché sfidarono gli insulti dei soldati e osarono asciugare il Volto adorato di Gesù. Certamente per questo egli permette che il disprezzo sia il loro retaggio sulla terra, poiché l’ha scelto per se stesso. In Cielo, saprà ben mostrare che i pensieri suoi non sono quelli degli uomini, poiché allora le ultime saranno le pri­me… Più d’una volta, durante il viaggio, non ho avuto la pazienza di attendere il Cielo per essere la prima. Un giorno in cui visitavamo un convento di Carmelitani non mi contentai di seguire i pellegrini nelle gallerie esterne, mi spinsi fino nel chiostro interno… a un tratto vidi un buon vecchio carmelitano che da lontano mi faceva segno che mi allonta­nassi, ma io, invece di andarmene, mi avvicinai a lui, e indi­candogli i quadri del chiostro gli feci cenno che erano belli. Capì senza dubbio dai miei capelli sciolti e dall’aria giovane che ero una bambina, mi sorrise con bontà, e si allontanò vedendo che non si trovava davanti a una nemica; se avessi potuto parlargli italiano, gli avrei detto che ero una futura carmelitana, ma a causa di quelli che fecero la torre di Babele, la cosa mi fu impossibile.

185 – Dopo aver visitato anche Pisa e Genova, tor­nammo in Francia. Durante il percorso, vedute magnifiche: ecco, corriamo lungo il mare, e la ferrovia è tanto vicina che mi pare le onde arrivino fino a noi (questo spettacolo fu cau­sato da una tempesta, ed era sera, cosicché la scena appariva ancor più maestosa), ora ecco delle aperte distese di aranceti dai frutti maturi, di verdi olivi dalla ramaglia lieve, di palme graziose… al cader del giorno vedevamo numerosi piccoli porti di mare che s’illuminavano di mille luci, mentre in cielo scintillavano le prime stelle. Ah, che poesia mi empiva l’ani­ma mentre vedevo tutte quelle cose per la prima e l’ultima volta! Senza rimpianto le vedevo svanire, il cuore mio aspira­va a meraviglie diverse, aveva contemplato abbastanza le bel­lezze della terra, ora desiderava quelle del Cielo, e io, per dar­le alle anime, volevo diventare prigioniera! Prima di vedere aprirsi dinanzi a me le porte della prigione benedetta, dovevo ancor lottare e soffrire: lo sentivo mentre tornavo in Francia, tuttavia la mia fiducia era tanto grande che speravo ancora nel permesso di entrare il 25 dicembre.

Santa Teresina  186 – Appena arrivate a Lisieux, la prima visita fu per il Carmelo. Quale incanto fu quel colloquio! Avevamo tante cose da dirci, dopo un mese di separazione, un mese che mi era parso lungo e istruttivo più di parecchi anni messi insieme. Madre mia cara, quanto mi fu dolce rivederla e aprire a lei la piccola anima mia ferita. A lei che mi sapeva capire tanto bene: una parola, uno sguardo le bastavano per indovinare tut­to! Mi abbandonai completamente, avevo fatto tutto quello che dipendeva da me, tutto, perfino parlare al Santo Padre, così non sapevo che cosa avrei dovuto fare ancora. Lei mi dis­se di scrivere a Monsignor Vescovo e ricordargli la sua pro­messa; lo feci subito come meglio potei, ma in termini che lo zio trovò un po’ troppo semplici. Rifece egli stesso la lettera; nel momento in cui stavo per spedirla, ne ricevetti una da lei che mi diceva di non scrivere, di attendere qualche giorno; obbedii subito, perché ero sicura che quello era il mezzo migliore per non mgannarmi. Finalmente, dieci giorni prima di Natale, la mia lettera partì. Ben convinta che la risposta non avrebbe tardato, andavo ogni mattina dopo la Messa alla posta con Papà, credendo trovarci il permesso per volar via, ma ogni mattina mi portava una delusione nuova, che tuttavia non scuoteva la mia fede. Chiedevo a Gesù che spezzasse le mie catene; le spezzò, infatti, ma in un modo affatto diverso da quello che mi aspettavo. La bella festa di Natale arrivò, e Gesù non si destò… lasciò per terra la sua pallina senza gettarle nem­meno uno sguardo.

187 – Avevo il cuore affranto quando andai alla Messa di mezzanotte, avevo pur contato di ascoltarla da dietro le grate del Carmelo! Fu una prova ben grande per la mia fede, ma «il Cuore che veglia durante il sonno» mi fece capire che concede miracoli a coloro la cui fede uguaglia un granello di senape e fa mutar di posto le montagne per rendere salda questa fede così piccola; ma per i suoi intimi, per sua Madre, non fa miracoli prima di avere messo a prova la loro fede. Non lasciò forse morire Lazzaro, nonostante che Marta e Maria gli avessero fat­to dire che era malato. Alle nozze di Cana, la Santa Vergine domandò a Gesù di venire in aiuto del padrone di casa, e non le rispose Gesù che l’ora sua non era ancor giunta. Ma dopo la prova, quale ricompensa! L’acqua si cambia in vino… Lazzaro risuscita. Così Gesù agì verso la sua Teresa: dopo averla lun­gamente provata, colmò tutti i desideri del cuore di lei.

188 – Nel pomeriggio della festa radiosa trascorsa da me tra le lacrime, andai a trovare le carmelitane; fu grande la mia sorpresa quando vidi, nel momento in cui apersero le grate, un incantevole Gesù Bambino che teneva in mano una palla su cui era scritto il nome mio. Le carmelitane, al posto di Gesù troppo piccolo per parlare, mi cantarono un cantico composto dalla mia Madre amata; ciascuna parola diffondeva nell’anima mia una consolazione dolcissima, mai dimenticherò questa deli­catezza del cuore materno che mi colmò sempre delle tenerez­ze più fini… Dopo aver ringraziato con lacrime soavi, raccontai ìa sorpresa che Celina mi aveva fatto al ritorno dalla Messa di mezzanotte. Avevo trovato in camera mia, in mezzo a una vasca graziosa, una navicella che portava Gesù Bambino addormen­tato, con una pallina accanto a lui; sulla vela bianca Celina ave­va scritto: «Io dormo, ma il cuore mio veglia», e sulla nave questa sola parola: «Abbandono!». Ah, se Gesù non parlava alla sua piccola fidanzata, se gli occhi suoi divini restavano sempre chiusi, almeno le si rivelava per mezzo di anime atte a capire le delicatezze e l’amore del suo Cuore.

189 – Il primo giorno dell’anno 1888 Gesù mi fece ancora dono della sua croce, ma questa volta fui sola a portarla, per­ciò fu tanto più dolorosa quanto incompresa. Una lettera di madre Maria di Gonzaga mi annunciò che la risposta di Mon­signor Vescovo era giunta il 28, festa dei santi Innocenti, ma che non me l’aveva resa nota perché aveva deciso che io entras­si soltanto dopo quaresima. Non potei trattenere il pianto pen­sando a un rinvio così lungo. Quella prova ebbe per me un carattere particolarissimo, vedevo i miei legami spezzati dalla parte del mondo, e questa volta era l’arca santa che rifiutava l’ingresso all’umile colomba. Credo bene che dovetti sembrare irragionevole quando non accolsi gioiosamente i miei tre mesi di esilio, ma credo altresì che, senza saperlo, questa prova fu grande e mi fece crescere molto nell’abbandono e nelle altre virtù.

190 – In quale modo trascorsero quei tre mesi tanto ricchi di grazie per l’anima mia? Anzitutto mi venne in mente di non costringermi ad una vita tanto ben regolata come quella cui ero avvezza, ma ben presto capii il valore del tempo che mi veniva offerto, e risolsi di darmi più che mai a vita seria e mor­tificata. Quando dico: «mortificata», non è per far credere che io facessi penitenze, ahimè! non ne ho fatte mai, ben lungi dal somigliare alle anime belle che fin dall’infanzia praticavano ogni sorta di mortificazioni, non sentivo per esse alcuna attrat­tiva. Certamente ciò proveniva dalla mia viltà, perché avrei potuto, come Celina, trovar mille piccole invenzioni per farmi soffrire, invece mi sono sempre lasciata coccolare nell’ovatta, e imbeccare come un uccellino che non abbia bisogno di far penitenza… Le mie mortificazioni consistevano nel rompere la mia volontà, sempre pronta a imporsi, nel trattenere una bat­tuta di risposta, nel rendere servizietti senza farli valere, nel privarmi di appoggiare il dorso quand’ero seduta, ecc. ecc. Fu per mezzo di questi nonnulla che mi preparai a diventare la fidanzata di Gesù, e non posso dire quanti ricordi cari mi abbia lasciato quell’attesa. Tre mesi passano veloci, finalmente arrivò il momento desideratissimo!

tratto da Storia di un’anima – Santa Teresa di Lisieux

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