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Quando Benedetto XVI ci ricordò che ‘pregando apriamo una finestra verso il cielo’

«Pregando apriamo una finestra verso il cielo» –  Cari fratelli e sorelle, nelle ultime catechesi abbiamo riflettuto su alcuni esempi di preghiera nell’Antico Testamento, oggi vorrei iniziare a guardare a Gesù, alla sua preghiera, che attraversa tutta la sua vita, come un canale segreto che irriga l’esistenza, le relazioni, i gesti e che lo guida, con progressiva fermezza, al dono totale di sé, secondo il progetto di amore di Dio Padre. Gesù è il maestro anche delle nostre preghiere, anzi Egli è il sostegno attivo e fraterno di ogni nostro rivolgerci al Padre. Davvero, come sintetizza un titolo del Compendio del Catechismo della Chiesa Cattolica, «la preghiera è pienamente rivelata ed attuata in Gesù» (541-547). A Lui vogliamo guardare nelle prossime catechesi.

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Un momento particolarmente significativo di questo suo cammino è la preghiera che segue il battesimo a cui si sottopone nel fiume Giordano. L’Evangelista Luca annota che Gesù, dopo aver ricevuto, insieme a tutto il popolo, il battesimo per mano di Giovanni il Battista, entra in una preghiera personalissima e prolungata: «Mentre tutto il popolo veniva battezzato e Gesù, ricevuto anche lui il battesimo, stava in preghiera, il cielo si aprì e discese sopra di lui lo Spirito Santo» (Lc 3,21-22). Proprio questo «stare in preghiera», in dialogo con il Padre illumina l’azione che ha compiuto insieme a tanti del suo popolo, accorsi alla riva del Giordano. Pregando, Egli dona a questo suo gesto, del battesimo, un tratto esclusivo e personale.

Il Battista aveva rivolto un forte appello a vivere veramente come «figli di Abramo», convertendosi al bene e compiendo frutti degni di tale cambiamento (cfr Lc 3,7-9). E un gran numero di Israeliti si era mosso, come ricorda l’Evangelista Marco, che scrive: «Accorrevano… [a Giovanni] tutta la regione della Giudea e tutti gli abitanti di Gerusalemme. E si facevano battezzare da lui nel fiume Giordano, confessando i loro peccati» (Mc 1,5). Il Battista portava qualcosa di realmente nuovo: sottoporsi al battesimo doveva segnare una svolta determinante, lasciare una condotta legata al peccato ed iniziare una vita nuova. Anche Gesù accoglie questo invito, entra nella grigia moltitudine dei peccatori che attendono sulla riva del Giordano. Ma, come ai primi cristiani, anche in noi sorge la domanda: perché Gesù si sottopone volontariamente a questo battesimo di penitenza e di conversione? Non ha da confessare peccati, non aveva peccati, quindi anche non aveva bisogno di convertirsi. Perché allora questo gesto? L’Evangelista Matteo riporta lo stupore del Battista che afferma: «Sono io che ho bisogno di essere battezzato da te, e tu vieni da me?» (Mt 3,14) e la risposta di Gesù: «Lascia fare per ora, perché conviene che adempiamo ogni giustizia» (v. 15). Il senso della parola «giustizia» nel mondo biblico è accettare pienamente la volontà di Dio. Gesù mostra la sua vicinanza a quella parte del suo popolo che, seguendo il Battista, riconosce insufficiente il semplice considerarsi figli di Abramo, ma vuole compiere la volontà di Dio, vuole impegnarsi perché il proprio comportamento sia una risposta fedele all’alleanza offerta da Dio in Abramo. Discendendo allora nel fiume Giordano, Gesù, senza peccato, rende visibile la sua solidarietà con coloro che riconoscono i propri peccati, scelgono di pentirsi e di cambiare vita; fa comprendere che essere parte del popolo di Dio vuol dire entrare in un’ottica di novità di vita, di vita secondo Dio.

In questo gesto Gesù anticipa la croce, dà inizio alla sua attività prendendo il posto dei peccatori, assumendo sulle sue spalle il peso della colpa dell’intera umanità, adempiendo la volontà del Padre. Raccogliendosi in preghiera, Gesù mostra l’intimo legame con il Padre che è nei Cieli, sperimenta la sua paternità, coglie la bellezza esigente del suo amore, e nel colloquio con il Padre riceve la conferma della sua missione. Nelle parole che risuonano dal Cielo (cfr Lc 3,22) vi è il rimando anticipato al mistero pasquale, alla croce e alla risurrezione. La voce divina lo definisce «Il Figlio mio, l’amato», richiamando Isacco, l’amatissimo figlio che il padre Abramo era disposto a sacrificare, secondo il comando di Dio (cfr Gen 22,1-14). Gesù non è solo il Figlio di Davide discendente messianico regale, o il Servo di cui Dio si compiace, ma è anche il Figlio unigenito, l’amato, simile a Isacco, che Dio Padre dona per la salvezza del mondo. Nel momento in cui, attraverso la preghiera, Gesù vive in profondità la propria figliolanza e l’esperienza della paternità di Dio (cfr Lc 3,22b), discende lo Spirito Santo (cfr Lc 3,22a), che lo guida nella sua missione e che Egli effonderà dopo essere stato innalzato sulla croce (cfr Gv 1,32-34; 7,37-39), perché illumini l’opera della Chiesa. Nella preghiera, Gesù vive un ininterrotto contatto con il Padre per realizzare fino in fondo il progetto di amore per gli uomini.

Sullo sfondo di questa straordinaria preghiera sta l’intera esistenza di Gesù vissuta in una famiglia profondamente legata alla tradizione religiosa del popolo di Israele. Lo mostrano i riferimenti che troviamo nei Vangeli: la sua circoncisione (cfr Lc 2,21) e la sua presentazione al tempio (cfr Lc 2,22-24), come pure l’educazione e la formazione a Nazaret, nella santa casa (cfr Lc 2,39-40 e 2,51-52). Si tratta di «circa trent’anni» (Lc 3,23), un tempo lungo di vita nascosta e feriale, anche se con esperienze di partecipazione a momenti di espressione religiosa comunitaria, come i pellegrinaggi a Gerusalemme (cfr Lc 2,41). Narrandoci l’episodio di Gesù dodicenne nel tempio, seduto in mezzo ai maestri (cfr Lc 2,42-52), l’evangelista Luca lascia intravedere come Gesù, che prega dopo il battesimo al Giordano, ha una lunga abitudine di orazione intima con Dio Padre, radicata nelle tradizioni, nello stile della sua famiglia, nelle esperienze decisive in essa vissute. La risposta del dodicenne a Maria e Giuseppe indica già quella filiazione divina, che la voce celeste manifesta dopo il battesimo: «Perché mi cercavate? Non sapete che io devo occuparmi delle cose del Padre mio?» (Lc 2,49). Uscito dalle acque del Giordano, Gesù non inaugura la sua preghiera, ma continua il suo rapporto costante, abituale con il Padre; ed è in questa unione intima con Lui che compie il passaggio dalla vita nascosta di Nazaret al suo ministero pubblico.

L’insegnamento di Gesù sulla preghiera viene certo dal suo modo di pregare acquisito in famiglia, ma ha la sua origine profonda ed essenziale nel suo essere il Figlio di Dio, nel suo rapporto unico con Dio Padre. Il Compendio del Catechismo della Chiesa Cattolica risponde alla domanda: Da chi Gesù ha imparato a pregare?, così: «Gesù, secondo il suo cuore di uomo, ha imparato a pregare da sua Madre e dalla tradizione ebraica. Ma la sua preghiera sgorga da una sorgente più segreta, poiché è il Figlio eterno di Dio che, nella sua santa umanità, rivolge a suo Padre la preghiera filiale perfetta» (541). Nella narrazione evangelica, le ambientazioni della preghiera di Gesù si collocano sempre all’incrocio tra l’inserimento nella tradizione del suo popolo e la novità di una relazione personale unica con Dio. «Il luogo deserto» (cfr Mc 1,35; Lc 5,16) in cui spesso si ritira, «il monte» dove sale a pregare (cfr Lc 6,12; 9,28), «la notte» che gli permette la solitudine (cfr Mc 1,35; 6,46-47; Lc 6,12) richiamano momenti del cammino della rivelazione di Dio nell’Antico Testamento, indicando la continuità del suo progetto salvifico. Ma al tempo stesso, segnano momenti di particolare importanza per Gesù, che consapevolmente si inserisce in questo piano, fedele pienamente alla volontà del Padre.

Anche nella nostra preghiera noi dobbiamo imparare, sempre di più, ad entrare in questa storia di salvezza di cui Gesù è il vertice, rinnovare davanti a Dio la nostra decisione personale di aprirci alla sua volontà, chiedere a Lui la forza di conformare la nostra volontà alla sua, in tutta la nostra vita, in obbedienza al suo progetto di amore per di noi.

La preghiera di Gesù tocca tutte le fasi del suo ministero e tutte le sue giornate. Le fatiche non la bloccano. I Vangeli, anzi, lasciano trasparire una consuetudine di Gesù a trascorrere in preghiera parte della notte. L’Evangelista Marco racconta una di queste notti, dopo la pesante giornata della moltiplicazione dei pani e scrive: «E subito costrinse i suoi discepoli a salire sulla barca e a precederlo sull’altra riva, a Betsàida, finché non avesse congedato la folla. Quando li ebbe congedati, andò sul monte a pregare. Venuta la sera, la barca era in mezzo al mare ed egli, da solo, a terra» (Mc 6,45-47). Quando le decisioni si fanno urgenti e complesse, la sua preghiera diventa più prolungata e intensa. Nell’imminenza della scelta dei Dodici Apostoli, ad esempio, Luca sottolinea la durata notturna della preghiera preparatoria di Gesù: «In quei giorni egli se ne andò sul monte a pregare e passò tutta la notte pregando Dio. Quando fu giorno, chiamò a sé i suoi discepoli e ne scelse dodici, ai quali diede anche il nome di apostoli» (Lc 6,12-13).

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Guardando alla preghiera di Gesù, deve sorgere in noi una domanda: come prego io? come preghiamo noi? Quale tempo dedico al rapporto con Dio? Si fa oggi una sufficiente educazione e formazione alla preghiera? E chi può esserne maestro? Nell’Esortazione apostolica Verbum Domini ho parlato dell’importanza della lettura orante della Sacra Scrittura. Raccogliendo quanto emerso nell’Assemblea del Sinodo dei Vescovi, ho posto un accento particolare sulla forma specifica della lectio divina. Ascoltare, meditare, tacere davanti al Signore che parla è un’arte, che si impara praticandola con costanza. Certamente la preghiera è un dono, che chiede, tuttavia, di essere accolto; è opera di Dio, ma esige impegno e continuità da parte nostra; soprattutto, la continuità e la costanza sono importanti. Proprio l’esperienza esemplare di Gesù mostra che la sua preghiera, animata dalla paternità di Dio e dalla comunione dello Spirito, si è approfondita in un prolungato e fedele esercizio, fino al Giardino degli Ulivi e alla Croce. Oggi i cristiani sono chiamati a essere testimoni di preghiera, proprio perché il nostro mondo è spesso chiuso all’orizzonte divino e alla speranza che porta l’incontro con Dio. Nell’amicizia profonda con Gesù e vivendo in Lui e con Lui la relazione filiale con il Padre, attraverso la nostra preghiera fedele e costante, possiamo aprire finestre verso il Cielo di Dio. Anzi, nel percorrere la via della preghiera, senza riguardo umano, possiamo aiutare altri a percorrerla: anche per la preghiera cristiana è vero che, camminando, si aprono cammini.

Cari fratelli e sorelle, educhiamoci ad un rapporto con Dio intenso, ad una preghiera che non sia saltuaria, ma costante, piena di fiducia, capace di illuminare la nostra vita, come ci insegna Gesù. E chiediamo a Lui di poter comunicare alle persone che ci stanno vicino, a coloro che incontriamo sulla nostra strada, la gioia dell’incontro con il Signore, luce per la nostra l’esistenza. Grazie.

Benedetto XVI – Udienza Generale 30 novembre 2011

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