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Possiamo proprio in questo istante non scegliere l’Inferno

Vi racconto una semplice storia. Siamo in una scuola e i protagonisti sono studenti di quindici anni. Come capita ormai troppo spesso oggigiorno, alcuni di questi ragazzi si divertono a prendere in giro altri compagni della classe. Un giorno, però, esagerano e le vittime reagiscono e riferiscono tutto ai genitori.

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A questo punto ecco l’intervento nella classe da parte della scuola. Non prediche, non castighi, ma un semplice discorso che scommette sulla libertà dei ragazzi. Questo in sintesi e semplificato: “Ciascuno di voi ha una grande occasione, quella di chiedere scusa alla persona che ha offeso. Chieder scusa pubblicamente vale molto di più, permette di riconoscere di fronte a tutti il proprio errore e di domandare perdono. Questa è la differenza tra l’Inferno e il Purgatorio. Non è la gravità della colpa che differenzia le anime dell’Inferno dantesco dalle anime del Purgatorio, ma la disponibilità a chieder perdono e ad accettare la misericordia di Dio. Tutti noi sperimentiamo l’Inferno, il Purgatorio e il Paradiso già su questa terra. Un semplice “sì”, la sola parola “scusami”, un passo indietro, l’apertura del cuore ci permettono di uscire dalla condizione di tristezza dell’Inferno alla rinascita del Purgatorio. Basta un semplice gesto, è sufficiente riconoscere il proprio errore. Chi ha sbagliato chieda scusa e si sentirà rinascere già fin da subito”. A questo punto si alza il braccio di uno studente che chiede scusa ad un compagno riconoscendo con esattezza la propria colpa. A seguire un altro compagno e poi un altro e un altro ancora. Nel volto dei ragazzi che riconoscono la colpa si legge la letizia di chi riprende a vivere di vita nuova. Nel volto dell’offeso si vede la gioia di chi ha perdonato. La storia è davvero commovente, ma l’aspetto più sorprendente è questo: la storia è vera. Scommettere sulla libertà dell’altro è sempre la prima sfida. Puntare sul cuore e sulla coscienza dell’altro è l’unica chance che abbiamo di salvarlo dall’Inferno del carcere dell’individualismo che ciascuno si costruisce e in cui si rintana.

L’ansia di salvezza trova una risposta nell’infinita misericordia di Dio

La storia appena raccontata ricorda il passaggio nella Commedia dantesca dall’Inferno al Purgatorio. Dopo il viaggio nell’Inferno, il Regno senza Dio, Dante ritorna a rivedere le stelle, sul far dell’alba, di fronte al «dolce color d’orïental zaffiro» e ad uno spettacolare «tremolar de la marina». Ritornano la luce, il cielo stellato, la notte, dominano gli affetti, le amicizie, il senso della coralità e della comunità, il movimento e il cammino sostituiscono la staticità dell’Inferno. L’ansia di redenzione che si è manifestata anche solo per un istante in Terra trova una risposta nell’infinita misericordia divina.

Perché le anime finiscono all’Inferno o nel Purgatorio? L’Inferno è per chi lo desidera o per chi non crede alla sua esistenza. Chiunque, invece, si rivolgesse a Dio con le parole di Tommaso da Celano musicate nel Requiem di Mozart «Rex tremendae maiestatis,/ qui salvandos salvas gratis,/ salva me fons pietatis» (ovvero «Re di autorevolezza tale da incutere timore, che salvi gratuitamente chi deve essere salvato, salva me, Tu che sei sorgente di misericordia») incontrerebbe l’infinito amore del Padre, quell’amore descritto così bene nella parabola del «Padre misericordioso» mentre, invece, l’invidia pretenderebbe che l’amore di Dio si misuri sulla nostra idea riduttiva di amore, ovvero sulla nostra pochezza.

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Interessante è, quindi, notare che nel Purgatorio dantesco si trovano talvolta anime che hanno commesso colpe anche più gravi rispetto ad altre che si trovano all’Inferno. Non è la gravità della colpa a stabilire la collocazione dell’anima. Solo il pentimento e la contrizione possono permettere all’uomo di ottenere la salvezza domandandola a Colui che solo può donarla.

Se l’Inferno dantesco è impostato sul sistema aristotelico per cui si può errare per incontinenza, per violenza o per frode, l’impostazione morale che presiede il Purgatorio è, invece, mutuata dal sistema morale tomista per cui l’amore può sbagliare per «malo obbietto» (amore per il male del prossimo), «per poco vigore» (insufficiente intensità dell’amore verso Dio) o «per troppo vigore» (amore per i beni terreni oltre il giusto limite).

Di conseguenza, la montagna del Purgatorio, ubicata proprio agli antipodi di Gerusalemme, presenta sette balze, questa volta dal vizio capitale più grave al meno grave: superbi, invidiosi, iracondi, accidiosi, avari e prodighi, golosi e lussuriosi. Dante si immagina che le anime purganti giungano sulle rive del Purgatorio, inizino a salire tutte insieme attorno alla montagna e rimangano nelle balze relative ai vizi capitali di cui si sono macchiate in proporzione alla gravità del vizio. Il vizio è il peccato riasserito e diventato abitudine per cui la persona perde anche la consapevolezza della colpa per l’abitudine acquisita: «errare è umano, perseverare è diabolico». Stazio, anima incontrata da Dante nel Purgatorio, ha espiato la sua colpa tra gli accidiosi per quattrocento anni, tra gli avari e i prodighi per cinquecento anni e poi ha trascorso altri secoli nelle altre balze. Come si vede alcuni peccati sono collocati sia nell’Inferno che nel Purgatorio. All’Inferno Dante punisce le anime nel cerchio correlato al peccato che ha portato l’anima alla dannazione eterna. In una dimensione escatologica siffatta diventa fondamentale la vigilanza, perché la nostra vita potrebbe finire quando non siamo pronti. Il Vangelo ci richiama più volte alla conversione, al pentimento, all’attesa del momento in cui il Signore ci chiamerà a sé.






Occorre umiltà

Altra virtù che si rende indispensabile è l’umiltà, ovvero il riconoscimento che siamo polvere, anche se abbiamo nel cuore il desiderio dell’eternità e siamo fatti per l’eternità. Senza umiltà non si può riconoscere la divina Misericordia. Senza umiltà non si può iniziare neppure a mendicare e intraprendere il cammino di purificazione. Ecco perché prima di iniziare il viaggio nel Purgatorio Dante deve cingersi di un giunco (simbolo dell’umiltà) e deve pulire il viso con la rugiada. Proprio per questo motivo nella seconda cantica grande importanza rivestirà il canto XI, dedicato ai superbi.

Giovanni Fighera




Fonte www.tempi.it

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