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Perché in Italia non si fanno più figli?

Nel suo rapporto annuale sulla società in Italia, presentato il 28 maggio, l’Istat ha rilevato un record del calo delle nascite. Nel 2013 sono stati registrati all’anagrafe poco meno di 515 mila bambini, 12 mila in meno rispetto al record negativo del 1995, 64 mila in meno rispetto a 5 anni fa’ (2008). Le donne italiane in età feconda fanno in media 1,29 figli (ce ne vorrebbero almeno 2 per donna per assicurare il ricambio generazionale!) e li fanno sempre più tardi: a 31 anni in media il primo figlio. Inoltre, sono sempre meno numerose, per via dell’uscita dall’esperienza riproduttiva delle nate fino alla metà degli anni ’70, quando la natalità nel nostro Paese era ancora sostenuta. Nel quadro di una situazione di stagnazione economica, se non di recessione, la disoccupazione, che raggiunge anch’essa livelli record, gioca un ruolo notevole nel deprimere la natalità. Si registrano, infatti, circa 6,3 milioni di persone senza lavoro e calano sensibilmente, gli occupati under 35. Il tasso di occupazione scende dal 50,4% del 2008 al 40,2% e aumentano i giovani, tra 15 e 29 anni, che non studiano né lavorano. La crisi economicamette, quindi, a dura prova le famiglie italiane e scoraggia i giovani che vorrebbero mettere su famiglia e le giovani coppie che aspirerebbero ad avere figli. A fronte della necessità che tutti e due i futuri genitori lavorino, perché altrimenti non ci sono entrate sufficienti, si riscontra mancanza o precarietà di lavoro. Un dato drammatico rivela che tra il 2008 e il 2013 sono aumentati i disoccupati padri di 303mila unità e le disoccupate madri di 227mila unità. In questo contesto, calano non solo le nascite, ma anche i matrimoni. Tuttavia, si deve rilevare che l’aspetto socio-politico del fenomeno denatalità è legato non solo alla precarietà o mancanza di lavoro, ma anche alla strutturazione del mondo del lavoro. Nel nostro paese il lavoro, non solo nel privato, ma anche nel settore della pubblica amministrazione, è strutturato in un modo che non tiene conto delle esigenze familiari, ed in particolare dei tempi del bambino, e, perciò, difficilmente si concilia con la funzione genitoriale.

Il carico sulle famiglie è pesante. Il sovraccarico dei compiti domestici sulle donne è quasi intollerabile. Secondo studi della CGIL-Marche relativi al 2012, il 22% delle donne non ha un parente cui affidare il bambino, il 18% non ha ottenuto l’iscrizione al nido, l’8% si lamenta degli elevati costi dei servizi nido e baby sitter, il 2% si dimette per mancata concessione del part-time. Nel 2012 quasi una madre su quattro a distanza di due anni dalla nascita del figlio non ha più un lavoro. Si aggiungono poi le difficoltà abitative, la carenza di servizi, il costo economico e sociale dei figli. Alle donne, quasi in perfetta solitudine, è rimessa, in definitiva, la capacità e la scelta di mettere assieme maternità, cure familiari, lavoro domestico ed extradomestico. Ne consegue che ci sono sempre più donne che rinunciano al lavoro per la maternità o che rinunciano alla maternità per il lavoro. Quello che si evince da questo desolante quadro è che c’è un clima sociale assolutamente sfavorevole alla maternità e alla paternità. Niente va incontro alle esigenze di chi vuole avere figli. Il mantenimento della funzione di riproduzione è in larga misura affidato alla buona volontà dei singoli. Del resto, ciò che appare caratterizzare l’approccio delle politiche di welfare è una sorta di oscillazione tra una centralità dichiarata, ma solo formale, della famiglia e la sua sostanziale marginalità come soggetto delle politiche sociali. Al richiamo teorico alla rilevanza e alla necessità di una sua promozione si contrappone, nella prassi, la negazione di tale importanza, il cui segnale principale è quello che potremmo definire “l’inconsistenza” delle politiche familiari. La spesa sociale per la famiglia e per l’infanzia è sostanzialmente residuale.

Manca l’attenzione verso la famiglia come soggetto di riferimento. Gli interventi si concentrano sui bisogni individuali di bambini, anziani, donne, disoccupati. Sarebbero, al contrario, urgenti politiche di sostegno e di promozione, politiche della casa, che aiutino le giovani coppie a trovarne una, politiche fiscali che riconoscano il carico dei figli, politiche dei servizi, che facciano del lavoro non l’idolo che schiaccia la famiglia (e la persona), ma la risorsa che permette di fare famiglia. Ma limitarsi a queste considerazioni è quantomeno riduttivo, perché il problema è anche di carattere culturale. Oggi sembrano difettare proprio i presupposti necessari per metter su famiglia. In una società sempre più sazia e sempre più disperata, che non vede più sbocchi nel futuro e nella quale le persone finiscono per vivere solo per se stesse, i motivi più profondi della denatalità si annidano in una mentalità che allontana le responsabilità e gli impegni significativi. Non si identifica più nelle responsabilità, e soprattutto nelle responsabilità familiari, un modello positivo. I giovani sono sospinti, al contrario, ad identificare la propria realizzazione con una buona posizione lavorativa e con la carriera. Il linguaggio del politically correct non dice: “Sosteniamo i giovani che vogliono sposarsi e che vogliono creare una famiglia”, ma: “Equipariamo le coppie di fatto alla famiglia”, il che vanifica la scelta di responsabilità del matrimonio. Si assiste anzi al suo snaturamento e al suo abbassamento a convivenza provvisoria e sterile. L’approvazione a larga maggioranza da parte della Camera della proposta di legge sul divorzio breve, che riduce i tempi dello scioglimento del matrimonio a soli 12 mesiin caso di contenzioso e a 6 mesiper il consensuale, avvenuta il 30 maggio, lo conferma ampiamente. L’istituzione familiare è, di fatto, depotenziata, perché privatizzata, vista non più nell’ottica della relazione salda di coppia, ma dell’opzione individuale, dell’investimento (emotivo, ideale, affettivo) dei singoli. Si tendono, conseguentemente, a considerare “questioni” esclusivamente private le funzioni familiari di riproduzione sociale e socializzazione culturale. Quello che più di tutto urge è allora creare un “ambiente” favorevole allo svolgimento ottimale delle funzioni che sono proprie alla famiglia, iniziando col riconoscerle il valore sociale della specificità delle sue funzioni, in vista di farne il soggetto centrale delle politiche sociali. di Clemente Sparaco

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