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Pace per la Libia!

libiaSi chiama la regola del negozio di  ceramiche:  “tu  rompi qualcosa, tu ne sei il proprietario”. Questa regola non si applica però soltanto ai vasi e alle tazze, ma anche alle nazioni. Nella  propaganda  alla catastrofica invasione dell’Iraq, questa regola è stata invocata da Colin Powell che allora era il Segretario di stato americano. Si dice che abbia annunciato a George W. Bush: ”Lei diventerà l’orgoglioso proprietario di 25 milioni di persone.” “Lei sarà il padrone di tutte le loro speranze, aspirazioni e problemi.” Ma mentre molti di questi interventi militari hanno lasciato in pezzi le nazioni, i governi occidentali  rassomigliavano al cliente che esce  dal negozio fischiettando, sperando che nessuno abbia notato il casino che si è lasciato dietro. I nostri media sono stati  fin troppo complici nel permettere loro di lasciare la scena. La Libia è un esempio impressionante. La campagna aerea degli Stati Uniti del 2011,  autorizzata dall’ONU, viene spesso lodata come un esempio luminoso di intervento straniero che è riuscito bene. Di sicuro il mandato iniziale – che era semplicemente quello di proteggere i civili – è stato superato  da nazioni che soltanto fino a poco fa vendevano le armi a Muammar Gheddafi, e il bombardamento si è trasformato in un cambiamento di regime, malgrado le proteste della Russia.  Ma dato che si trattava di un delinquente sanguinario espulso dal potere chi poteva obiettare? La Libia di oggi è  invasa  da milizie e si trova in una situazione di deterioramento dei diritti umani, di caos crescente che sta infettando altre nazioni, di crescenti divisioni interne, e perfino della minaccia di guerra civile. Soltanto occasionalmente questa crisi che aumenta sempre di più, si infila nei titoli di prima pagina: quando, per esempio, una petroliera viene sequestrata dalla milizia ribelle, o quando un operaio petrolifero britannico viene ucciso da un’arma da fuoco mentre fa un picnic, o quando il primo ministro del paese viene sequestrato.

Secondo Amnesty International, le “crescenti limitazioni alla libertà di espressione stanno minacciando i diritti che i libici cercavano di ottenere.” Una legge repressive dell’era di Gheddafi  è stata emendata per criminalizzare qualsiasi offesa  a funzionari o al congresso generale nazionale ( il parlamento ad interim). Un giornalista, Amara al-Khattabi, è stato processato per aver dichiarato che esiste la corruzione tra i giudici. Le stazioni della televisione satellitare che considerate critiche nei confronti delle autorità, sono state messe al bando, una di queste è stata attaccata con granate lanciate con razzi e dei giornalisti sono stati assassinati. Alcune violazioni di diritti umani sono iniziate nei giorni tumultuosi seguiti alla deposizione di Gheddafi, e sono state ignorate dall’Occidente. Sin dalla caduta della sua dittatura, ci sono state notizie di libici di colore maltrattati in massa come lealisti di Gheddafi e aggrediti. Con un atto selvaggio di punizione collettiva, 35.000 persone  sono state espulse da Tawergha come rappresaglia per il brutale assedio di Misurata, la roccaforte anti-Gheddafi. La città è stata   distrutta   e gli abitanti sono stati lasciati in un campo profughi di Tripoli in “deplorevoli condizioni” come le definiscono le organizzazioni per i diritti umani. Questi trasferimenti forzati continuano anche in altre località. Migliaia di persone sono state arbitrariamente detenute senza alcuna apparenza di giusto processo; giudici, pubblici ministeri, avvocati e testimoni sono stati attaccati e perfino uccisi. Il primo procuratore generale della Libia del dopo-Gheddafi, Abdulaziz Al-Hassadi, è stato assassinato  il mese scorso nella città di Derna.

Ma sono le milizie che hanno riempito il vuoto del dopo-Gheddafi, che rappresentano la maggiore minaccia per i diritti umani e per la sicurezza dei libici. “La Libia è stata messa in secondo piano dalla comunità internazionale mentre il paese è quasi scivolato nel caos,” avverte l’Osservatorio per i diritti umani.  Nel tentativo di integrare le milizie nell’apparato statale, il debole governo centrale paga  1.000 dollari al mese a  160.000 componenti di queste bande spesso violente e li accusa di mantenere l’autorità. Quando gli abitanti di Bengasi – il cuore della rivoluzione – hanno protestato contro il dominio della milizia nel giugno dello scorso anno, 32 persone sono state uccise in quello che è diventato noto come “Sabato nero”. In un’altra protesta a Tripoli, 46 persone sono morte  state e 500 sono state ferite. Sotto il dominio delle milizie, la Libia sta  cominciano a disintegrarsi. L’estate scorsa, le forze al comando del signore della guerra  Ibrahim  Jadran hanno preso il controllo dei terminali  per il petrolio della zona est, chiedendo autonomia e ulteriori risorse per la Cirenaica,  cioè  la regione orientale  del paese ricca di petrolio e a lungo abbandonata. Le esportazioni di petrolio sono crollate da circa 1,5 milioni di barili al giorno a meno di 500.000, il che è costato al paese miliardi di dollari. Sebbene inizialmente le forze di Jadran abbiano avuto appoggio soltanto dalla popolazione Magharba, mentre altri gruppi etnici si sono ora uniti alla sua lotta. Sono queste  le forze che hanno sequestrato una petroliera in questo mese, provocando minacce da parte del primo ministro libico che questa sarebbe stata bombardata fino a quando le forze degli Stati Uniti non la avessero presa in questo fine settimana. Sono esplosi scontri nelle città natale di Jadra, cioè Aidabiya. Come dolorose eco dell’incubo iracheno, la settimana scorsa  un’autobomba è esplosa in una base militare di Bengasi la e ha ucciso almeno otto soldati, e il principale aeroporto della Libia è stato chiuso venerdì dopo che una bomba è esplosa su una delle piste.

Una delle grandi perversioni della cosiddetta guerra al terrore, è che le forze islamiste fondamentaliste hanno prosperato come diretta conseguenza di questa. La Libia non fa eccezione, anche se spesso questi movimenti hanno scarso appoggio popolare. I Fratelli Musulmani e altri elementi sono meglio organizzati rispetto a molti dei loro rivali, hanno aiutato a destituire il primo ministro, a fare accettare la legislazione e a stabilire alleanze con milizie opportuniste. Il caos si sta diffondendo  in tutta la regione in modo inquietante. Il paese è inondato di 15 milioni di fucili e di altre armi, e in questo mese  un rapporto del comitato di esperti dell’ONU ha trovato che la “Libia è diventata una sorgente primaria di armi illegali”. Queste armi stanno alimentando il caos in 14 paesi, compresi: Somalia, Repubblica Centrafricana, Nigeria e Niger. Il Qatar aiuta a consegnare gli armamenti alla Siria, dove le armi fabbricate in Russia, comprate dal regime di Gheddafi, vengono date ai ribelli islamisti fondamentalisti. In quello che ha tutti i segni caratteristici di uno sviluppo inatteso, un piccolo numero di soldati statunitensi viene ora mandato a Tripoli per cominciare ad addestrare le truppe. Però un futuro stabile per la Libia sembra remoto, per quanto gran parte della lotta del paese viene tenuta  nascosta in modo sicuro dalle prime pagine. Si sta dividendo lungo ogni  immaginabile linea di frattura: etnica o tribale, regionale o politica. La maggior parte dei libici non sono neanche riusciti a registrarsi per le prossime elezioni. C’è una reale possibilità che il paese cada nella guerra civile o anche che vada in pezzi. A meno che non ci siano accordi negoziati per i suoi molteplici problemi, la Libia certamente continuerà la sua discesa nel caos, e la regione potrebbe essere trascinata nel pantano. Non c’è da meravigliarsi che i governi e i giornalisti occidentali che avevano salutato il successo di questo intervento, siano così silenziosi. Ma queste sono le conseguenze della loro guerra, e devono assumersene la responsabilità. di Owen Jones

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