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P. Neuhaus: israeliani e palestinesi tornino a parlarsi

Resta altissima la tensione in Israele. Hamas ha indetto per domani, al termine della preghiera del venerdì, una nuova “Giornata di collera” in Cisgiordania e a Gerusalemme est. Intanto si attiva la diplomazia internazionale: il segretario di Stato Usa Kerry partirà presto per la regione e starebbe cercando di organizzare un vertice tra il premier israeliano Netanyahu e il presidente palestinese Abu Mazen. Il servizio di Marco Guerra:

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Attaccare l’esercito israeliano “per punirlo dei suoi crimini”, è l’esortazione che Hamas ha rivolto a tutti gruppi palestinesi per la “Giornata di collera’” indetta per domani dallo stesso movimento che controlla la Striscia di Gaza. Anche oggi però in Israele non sono mancate nuove tensioni: a Tel Aviv la polizia ha fermato, dopo un lungo inseguimento, due palestinesi sospettati di accingersi a compiere un attentato.  Il bilancio di due settimane di violenze resta di sette morti israeliani e una trentina di palestinesi. E prosegue anche lo scontro politico. Il presidente palestinese Abu Mazen ha chiesto la protezione internazionale per la Spianata delle Moschee di Gerusalemme e ha invitato lo Stato ebraico a porre fine alle provocazioni. Dal canto suo l’ufficio del premier israeliano ha tacciato il presidente dell’Anp di “diffondere bugie” e ha mostrato foto di un giovane attentatore palestinese ricoverato in ospedale che, secondo Abu Mazen, era stato giustiziato. Intanto il segretario di stato Usa John Kerry starebbe lavorando per far incontrare il premier Netanyhau e il presidente Abu Mazen ad Amman. 

Sul clima di tensione nella regione, ascoltiamo il padre gesuita David Neuhaus, vicario del Patriarcato latino di Gerusalemme per i cattolici di espressione ebraica, al microfono di Antonella Palermo:

R. – La situazione è molto triste… La tristezza si mescola a tanta paura. Gli ebrei vivono nella paura, i palestinesi vivono nella paura… Ieri ho parlato con un uomo che mi ha detto che sono tre giorni che non manda i bambini a scuola, perché ha paura di non vederli tornare vivi. Speriamo che il Santo Spirito ispiri i nostri capi affinché facciano passi in avanti e non indietro, perché per il momento non si vede niente in modo chiaro. Come sempre, dobbiamo andare un po’ più in fondo per vedere perché i nostri giovani – da entrambe le parti – sono presi da questa violenza, questo odio, questo rifiuto totale dell’altro. E andare in fondo per trovare le radici di questa situazione vuol dire anche capire un po’ la storia, ascoltare la voce dell’altro che parla delle sue ferite. È un lavoro duro…

D. – Ieri Mahmud Abbas ha detto che si rischia, a brevissimo, “un conflitto di religione”: è fondata questa preoccupazione?

R.  – Mah, la povera religione… La religione è usata, manipolata: è sempre stato così purtroppo in Terra Santa. Ma questa non è una guerra religiosa: qui c’è il problema del rifiuto dell’altro che, in fondo, non è tanto basato sulla religione, ma sull’appartenenza etnica e nazionale. Qui è una guerra tra israeliani e palestinesi, e qui la religione è stata sempre usata per giustificarsi. Fare entrare Dio in ogni formula politica è molto, molto pericoloso!

D. – L’imposizione di posti di blocco israeliani nelle zone palestinesi di Gerusalemme rappresenta, secondo lei, una reale misura di sicurezza?

R. – È difficile dirlo. Quello che è chiaro è che gli israeliani hanno paura e chiedono ai loro capi di prendere delle misure che sono basate su questa paura. Ma la reazione provocata dalla paura non può essere una soluzione: noi dobbiamo capire che qui c’è una situazione di decine di anni di occupazione militare; un popolo che non ha diritti. E aggiungere la pressione all’oppressione di questo popolo non sarà la soluzione! Sono stato molto, molto toccato quando il figlio di un uomo che è stato ammazzato sull’autobus l’altro giorno – un ebreo religioso – dopo il funerale del papà ha detto: “Noi non cerchiamo la violenza o la vendetta, per la morte del mio papà. Il mio papà è stato un uomo di dialogo, un uomo semplice… Perché noi non investiamo in questo dialogo, per cercare insieme la soluzione?”

D. – Come commenta il fatto che è stato deciso di demolire, entro poche decine di ore, le case degli arabi coinvolti nei recenti attacchi a Gerusalemme, e che sia stato anche deciso di revocare la residenza delle famiglie dei terroristi e di spedirle nei Territori occupati?

R. – Non soltanto ci sono anche altre reazioni: non dare i cadaveri di quelli che sono morti alle loro famiglie, impedendo loro di fare la sepoltura. Io sono israeliano, quindi dico “noi”, noi abbiamo da decine di anni queste reazioni basate sulla paura. Abbiamo provato tutto questo per decine, decine e decine di anni tantissime volte, e dobbiamo capire! Non siamo stupidi! Questo aggiunge odio, rifiuto. Dio ha messo questi due popoli qui: né l’uno né l’altro sparirà. Questo – credo – è il nemico più grande: quando i nostri capi dicono sempre che la vittoria è prossima e che dobbiamo resistere fino alla vittoria! Ma non ci sarà la vittoria! La vittoria ci sarà soltanto quando entrambi i popoli potranno sedersi insieme e parlare l’uno con l’altro: questa sarà la vittoria!

Redazione Papaboys (Fonte it.radiovaticana.va)

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