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Mons. Tomasi: Occidente indifferente alle sofferenze dei cristiani

Al Meeting di Rimini è intervenuto oggi mons. Silvano Maria Tomasi. L’osservatore permanente della Santa Sede presso l’Ufficio Onu di Ginevra, ha parlato delle attuali crisi mondiali a partire dal dramma delle migrazioni.

Mons. Tomasi

Ecco l’intervista di Tommasi al microfono di Luca Collodi della Radio Vaticana.

R. – C’è una volontà politica che continua a mantenere le disuguaglianze tra Paesi, che provocano questi disagi, spingono le persone a cercare altrove soluzioni, o perché i loro diritti umani sono violati o perché la guerra non permette di vivere una vita normale. E poi, un altro aspetto importante è quello economico. Le grandi multinazionali, le relazioni commerciali tra Stati che funzionano, normalmente, a beneficio dei Paesi più forti, lasciano sempre un po’ indietro i Paesi più deboli economicamente .

D. – I migranti sono il frutto di una destabilizzazione dei Paesi più forti, dei Paesi più sviluppati?

R. – E’ una realtà, è un dato concreto che dall’invasione dell’Iraq del 2003 a oggi, la situazione nel Medio Oriente è andata sempre peggiorando. Dobbiamo confrontarci con una situazione nuova. Per esempio, le Nazioni Unite erano state fondate alla fine della Seconda Guerra mondiale per portare pace tra gli Stati. Ora la questione è come portare la pace dentro gli Stati. Le conseguenze delle azioni che Paesi occidentali hanno posto, sono quelle che vediamo oggi.

D. – I valori cristiani e l’integrazione dei migranti, quanto sono compatibili?

R. – Come cristiani abbiamo il dovere dell’accoglienza. L’accoglienza è una responsabilità verso le necessità del resto della famiglia umana. Però, il bene comune anche domanda che teniamo un equilibrio. Anzitutto, direi che bisogna affrontare il problema alle radici e vedere le cause per cui queste persone si muovono, e se noi siamo responsabili in qualche modo di questo movimento dobbiamo tirarne le conseguenze. C’è il dovere di accogliere ma c’è forse, credo, il diritto di mantenere la propria identità. E la propria identità in questo caso soprattutto mi pare l’identità cristiana. Davanti a una presenza di immigrati musulmani che hanno una difficoltà particolare da affrontare, che è quella di non accettare la separazione tra religione e politica, tra Chiesa e Stato – diremmo nel nostro linguaggio –, questo ha una conseguenza diretta sul processo di integrazione. E come facciamo? Dobbiamo anche dire che ci sono dei valori fondamentali che devono essere accettati. Tra questi valori fondamentali c’è il rispetto del pluralismo nella società, la separazione tra politica e religione, l’accettazione di un processo democratico normale, in modo che sia possibile la convivenza serena, costruttiva di tutte le persone che vengono a costituire la comunità arricchita di queste presenze.

D. – Intanto, il fondamentalismo religioso sta distruggendo simboli cristiani in Medio Oriente, ma questa cosa passa non dico inosservata, ma comunque con una certa normalità nelle opinioni pubbliche internazionali …

R. – I cristiani sono il gruppo religioso più perseguitato nel mondo. L’Occidente è indifferente alla sofferenza dei cristiani. Ci sono espressioni di simpatia, ma al di là della voce di Papa Francesco, che ricorda il dovere di solidarietà con questi nostri fratelli perseguitati, da un punto di vista della grande politica globale il fatto religioso è messo da parte, non conta. Come se i diritti umani dei cristiani non avessero lo stesso valore dei diritti umani di altre persone. Questo mi pare sia una situazione non accettabile e sui cui dobbiamo continuamente insistere per creare un’opinione pubblica che finalmente possa spingere ad agire e a trovare una soluzione politica.

D. – Un possibile intervento militare a guida italiana sotto le bandiere delle Nazioni Unite in Libia, secondo lei può essere l’inizio di un cammino per riprendere il controllo di quell’area in Medio Oriente?

R. – La strada per trovare una rappacificazione, un tentativo di normalizzare la vita sociale e politica in Libia è quella del dialogo. Bisogna portare i gruppi, i rappresentanti delle varie tribù che costituiscono la Libia, assieme, attorno al tavolo; che si mettano d’accordo, che trovino una strada per uscire dalla violenza in cui sono insabbiati in questo momento. Una volta che c’è questo accordo, la presenza di forze militari internazionali per fare attuare l’accordo raggiunto dai libici, allora sì che è utile che ci sia una presenza militare!

D. – La prossima presenza del Papa alle Nazioni Unite potrà rilanciare la tanto richiesta riforma dell’Onu?

R. – La riforma dell’Onu è un dibattito di 30 anni e più: siamo passati da un senso di responsabilità comunitario, di solidarietà verso il resto della famiglia umana che aveva spinto, alla fine della Seconda Guerra mondiale, queste istituzioni, a un individualismo assoluto nel quale c’è un concetto di libertà senza responsabilità che di fatto sta bloccando l’azione globale che è necessaria per risolvere i problemi di oggi. Quello che il Santo Padre può dire e incoraggiare è questo senso di vera solidarietà, quella fraternità che del resto è il Vangelo che ce lo comanda, che è quella che permette un’azione globale efficace.

Redazione Papaboys (Fonte it.radiovaticana.va)

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