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Nei luoghi di Madre Teresa

Sono stata a Calcutta alla fine degli anni Ottanta. Speravo di incontrare Madre Teresa, era appena partita per uno dei suoi viaggi di missionaria della carità. Ma ho avuto la fortuna di “incontrarla”, perché tutto parlava di lei e profumava del suo amore, nei luoghi dove è iniziata la sua grande avventura umana e di fede, la Casa dei morenti, il Mimal hriday (“luogo del cuore puro”) e quella dei bambini.

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Calcutta è l’India con la densità irrespirabile della sua popolazione, con la caotica folla che si avvolge su stessa in ritmi frenetici, dilaga in ogni angolo con quell’allegria che è voglia di vivere e di sognare. Ma è anche un termitaio sventrato, con le sue distese sconfinate di sofferenze che si spalmano dolorosamente sui marciapiedi, famiglie intere ricoperte di stracci, gli sguardi vuoti per la fame, donne scheletriche con bambini denutriti appesi ai seni prosciugati, cadaveri nelle strade, che ogni mattina vengono caricati sui furgoni dei rifiuti. È quel bambino al quale hanno amputato gli arti inferiori perché, sul suo rudimentale carrettino, impietosisse i passanti e ottenesse qualche rupia.

Si arriva alla Casa dei morenti nel quartiere di Kaligath, nella periferia meridionale di Calcutta, con negli occhi queste visioni contrastanti, subito travolti dalla folla brulicante e colorata dei pellegrini che vengono per venerare la dea Kali, nel celebre tempio indù a lei dedicato.

LA CASA DEI MORENTI
L’aria, densa di odori acri e soffocanti, è attraversata da rumori assordanti, il muro umano impenetrabile, che si erge da ogni parte, crea un’atmosfera opprimente e minacciosa. Su questo vulcano in ebollizione, dove tutto può accadere, si affaccia l’antico edificio dei pellegrini, consegnato nel 1952 a Madre Teresa per accogliere i suoi «derelitti morenti».

Nessun segno esterno lo distingue, mescolato come è in mezzo alle altre case, ma superata la soglia, tutto cambia. L’aria si fa più leggera in un silenzio improvviso che contrasta con le turbolenze chiassose di fuori. Due padiglioni, uno per le donne e l’altro per gli uomini. Sulle brandine, coperte di teli verdi, decine di persone immobili, nell’abbandono del corpo che precede la morte. Le hanno raccolte le missionarie di Madre Teresa sui marciapiedi e nelle bidonville della metropoli bengalese. Sono gli intoccabili, i fuori casta, i rifiuti di una società che non si occupa di loro e che sono respinti dagli ospedali perché incurabili.

AGONIA E SOLLIEVO
Mi sono avvicinata ai letti con il disagio di un’intrusa, con una sensazione di profanazione, mentre i volontari, che vengono da ogni parte del mondo, rovesciavano sui pavimenti secchi di disinfettanti. Nel primo letto una ragazza, neppure vent’anni, il corpo scosso da una tosse continua e violenta, gli occhi chiusi, i pugni contratti sul petto. Anche nelle altre brandine, corpi ridotti a scheletri, volti deturpati dalla malattia, sguardi spenti. Un uomo in agonia, l’avevano raccolto quella stessa mattina su un mucchio di rifiuti. Non sarebbe morto solo. Non gemiti, né lamenti. Alcune donne si erano sedute nei letti e salutavano timidamente, congiungendo le mani sul viso, secondo l’uso indiano, negli occhi una sofferenza rassegnata e un tentativo di sorriso.

A quelli giunti all’estremo, un volontario teneva la mano, una carezza, un sorriso. Ho ripensato alle parole di Madre Teresa, quando aveva inaugurato questo luogo di transito verso il cielo: «Per prima cosa cerchiamo di far capire loro che gli vogliamo bene, che si rendano conto che c’è realmente qualcuno che li ama, almeno nelle poche ore che hanno ancora da vivere. Comportiamoci in modo che conoscano l’amore umano e divino, che sappiano di essere anche loro figli di Dio, non dimenticati, amati e curati. E che ci sono delle giovani vite pronte a sacrificarsi per il loro servizio».

Guardavo le missionarie della carità, quasi tutte molto giovani, scivolare fra i letti dei morenti, come nelle navate di una chiesa. Avrei voluto inginocchiarmi davanti a queste Eucaristie. Una giovane suora m’invitò a visitare la casa dei bambini, poco distante. Sul portone una scritta in inglese:Lasciateci fare qualcosa di bello per Dio. La stessa atmosfera accogliente e serena, nell’aria quella pace che sanno trasmettere i cuori che si donano agli altri in totale gratuità.

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I BAMBINI ABBANDONATI
Nei lettini candidi, tanti e ancora tanti bambini, alcuni neonati, altri incerti sulle gambine, aggrappati alle sbarre, con i grandi occhi sgranati sui visitatori, un velo di malinconia nello sguardo. «Molti li abbiamo trovati sui mucchi di rifiuti, alcuni in fin di vita. Qui si sentono protetti, ma stentano a ritrovare il sorriso. Anche per i casi senza speranza, tentiamo l’impossibile e spesso, contro ogni previsione, avvengono delle resurrezioni. Li prenda in braccio, hanno bisogno di percepire che sono amati, di sentire il calore di un corpo, non sono mai stati fra le braccia di una mamma».

Le suore di Madre Teresa partono la mattina dalle loro case alle quattro e rientrano la sera alle nove. Vanno negli slum, vere e proprie fogne a cielo aperto. Visitano i “punti caldi”, alla ricerca dei casi più disperati. Li curano negli ambulatori volanti, i più gravi li caricano sulle loro ambulanze. Sono tutte infermiere, ma hanno anche imparato a fare il muratore, il calzolaio, il falegname. «I poveri hanno bisogno di tutto», mi aveva detto la mia accompagnatrice.

Al termine della mia visita, commossa e smarrita per quanto avevo visto, mi sono chiesta: come riescono queste donne ad affrontare ogni giorno abissi così sconvolgenti di miseria, curare i corpi deturpati dalla malattia, reggere l’odore nauseabondo delle piaghe che li ricoprono?

La risposta l’ho trovata in quanto scrisse un giorno Madre Teresa in No Greater Love: «Quando curiamo il malato e il bisognoso noi tocchiamo il corpo sofferente di Cristo, e questo contatto ci renderà eroici, ci farà dimenticare la ripugnanza e le nostre naturali tendenze. Abbiamo bisogno degli occhi di una profonda fede per vedere Cristo nel corpo disfatto e nei vestiti sporchi sotto i quali si nasconde il più bello tra i figli degli uomini. Abbiamo bisogno delle mani di Cristo per toccare quei corpi feriti dal dolore e dalla sofferenza».




Redazione Papaboys (Fonte www.credere.it)

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