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L’Italicum è fatto, la nuova politica no

L'Italicum è fatto, la nuova politica noIl risultato è in cassaforte e a Matteo Renzi pare importare poco il gioco del pallottoliere portato avanti da una opposizione quanto mai coesa, dove Forza Italia, Cinque Stelle e Sel per la prima volta tentano di mettere a punto una strategia comune dal sapore di una trappola, contando sui dissidenti del Pd. L’Italicum passa a Montecitorio a scrutinio segreto con 334 voti a favore, 61 contrari e 4 astenuti. Una minoranza risicata e un fronte contrario dilatato rispetto ai voti di fiducia ottenuti solo qualche giorno fa sugli articoli del testo. Per il premier quello che conta, però, è racchiuso nel suo tweet che parte non appena il tabellone emette il verdetto: l’Italicum è la nuova legge elettorale del Paese. «Impegno mantenuto, promessa rispettata. L’Italia ha bisogno di chi non dice sempre no. Avanti, con umiltà e coraggio», twitta il segretario del Pd, concentrando, come nel suo stile, i concetti base del suo pensiero. Il resto lo spiega il suo ministro, che da mesi presidia giorno dopo giorno i lavori per le riforme. «Abbiamo superato la maggioranza assoluta dei voti alla Camera e comunque la maggioranza del governo ha risposto, visto che il governo ha messo la fiducia, rischiando di andare a casa se non fosse andata bene», afferma Maria Elena Boschi. Insomma, «ce l’abbiamo fatta!», esulta ancora il ministro per le Riforme, «convinta che dall’alto della sua esperienza» il capo dello Stato Mattarella «firmerà l’Italicum». Senza tirarlo «per la giacchetta», ma proprio perché «è un costituzionalista».

Gli abbracci e i baci, al termine della giornata, sono tutti per lei. E il ministro plenipotenziario di Renzi in questa fase non mette al bando l’opposizione interna del suo partito («Il 10% del gruppo si è intestardito, ma non è del Pd pensare a espulsioni»), che riesce a far crescere a 61 il fronte dei contrari alla nuova legge elettorale. Non è la giornata adatta a mettere in luce il partito spaccato. Piuttosto Boschi risponde al fuoco del capogruppo azzurro Brunetta, di certo il più agguerrito dei suoi avversari: «Ha sbagliato strategia in Parlamento. Non ne ha azzeccata una, ha sbagliato tutte le sue scelte politiche e ora lo ha dimostrato ampiamente».

Comunque, analizza Lorenzo Guerini, «i 61 voti contrari non sono tutti del Pd e non è un elemento che allarma». Il vicesegretario sa però che «c’è da lavorare ancora perché da tutti ci sia un atteggiamento di responsabilità». Di fatto, il Pd resta diviso, ma l’unico dichiaratamente pronto a uscire per ora è Pippo Civati. Al suo fianco scalpitano Stefano Fassina e Alfredo D’Attorre. I 61 sono per lo più dem (circa 45 rispetto ai 38 dei voti di fiducia, gli altri 16 sono gli ex M5S di Alternativa Libera più Nunzia De Girolamo, di Ncd), i cui dissidenti crescono in occasione del voto finale, ma tra questi c’è anche Romano di Fi, qualche ex grillino del gruppo Misto.

E questo sancisce il fallimento del blitz fortemente voluto in mattinata dal capogruppo azzurro Renato Brunetta, che dopo aver chiesto il voto segreto, convince le opposizioni a uscire dall’aula, con il doppio scopo di evitare tradimenti dei suoi e per far contare i cecchini del Pd.

Ma la maggioranza resiste, Ap è compatta e anche Scelta civica offre il suo contributo. Anzi, rivendica il partito di Zanetti in una nota: «Il voto di oggi dimostra che se la minoranza del Pd si mette di traverso, senza Scelta Civica la maggioranza alla Camera non c’è. È un dato politico di assoluta rilevanza in vista dei futuri interventi di politica economica e di rinnovamento della nostra Pubblica amministrazione».

Interventi sui quali la minoranza dem minaccia di non fare sconti. Bersani, Speranza, Letta e la gran parte dell’opposizione non hanno alcuna intenzione di uscire dal Pd. Ma neppure di farsi da parte. I fronti aperti e molto caldi sono tanti. Compresa la riforma della scuola, su cui la protesta ampia può ben essere cavalcata. Il messaggio al premier resta lo stesso: attenzione ai numeri al Senato, dove l’esecutivo ha un margine molto più ridotto. Ma il clima a Palazzo Chigi sembra più disteso e la possibilità di riaprire il dialogo sui fronti caldi comincia a prevalere.

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A cura di Redazione Papaboys fonte: Avvenire

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