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Il Cristiano d’Oriente che emigra, responsabile o colpevole?

Il Cristiano d’Oriente che emigra, responsabile o colpevole?La situazione del Cristiano d’Oriente

La situazione dei Cristiani d’Oriente, che non è una priorità per le istituzioni internazionali, costituisce invece l’oggetto di una attenzione tutta particolare per la Chiesa la quale, con la voce del Vaticano, del clero o delle associazioni, invita i suoi fedeli a non abbandonare la loro terra che rappresenta la culla del cristianesimo. Per il Cristiani coinvolti, il proposito di rimanere è messo in dubbio. Tra la presenza su una terra ostile e le vite minacciate, cosa scegliere?

Coloro che lanciano appelli non insistono con argomenti spirituali, tipo: “è necessario restare perché Gesù o i profeti hanno vissuto qui“. Per la Chiesa la posizione è chiara: i Cristiani devono rimanere perché contribuiscono all’equilibrio politico e religioso delle società del Medio Oriente. Società che essi stessi hanno contribuito a costruire lungo duemila anni.

Questo punto di vista è sostenuto dall’esortazione apostolica: Ecclesia in Medio Oriente, pubblicata da papa Benedetto XVI nel 2011: “i cristiani condividono con i musulmani la stessa vita quotidiana in Medio Oriente. I cattolici del Medio Oriente (…) hanno il dovere e il diritto di partecipare pienamente alla vita della nazione, lavorando alla costruzione della loro patria”. Questa posizione, ripresa più volte in occasione di conferenze o vertici internazionali, è l’argomento forte per chiedere l’aiuto della comunità internazionale e, soprattutto, per incoraggiare i cristiani coinvolti a non abbandonare le loro terre. A sua volta papa Francesco, in un invito lanciato il 21 novembre 2013, insisteva e ricordando che i cristiani: “sono cittadini a pieno titolo, liberi di vivere la loro religione e le loro tradizioni nel seno delle società di cui fanno parte”.

Quando “diritto” e “dovere” sono impossibili

Ben coscienti che i loro padri sono stati fondatori e creatori delle loro società, i Cristiani odierni del Medio Oriente hanno ormai l’idea di non essere più al loro posto.

In certi paesi essi sono respinti, cacciati, decimati, spogliati dei loro diritti. I conflitti politici che si prolungano, la riduzione della libertà religiosa, o gli attacchi improvvisi e terribili dei combattenti dell’Isis (Daesh) in Iraq o in Siria, contro comunità religiose o parrocchie, hanno rilanciato con urgenza una domanda che da molto tempo si pone: “forse bisogna partire?”.

È proprio in questo caso che molti prelati e alti responsabili religiosi hanno ricordato la posizione della Chiesa. Ma, lo stesso, si pone una domanda: come accolgono i fedeli questi argomenti? Loro che non hanno passaporto, né denaro, né protezione o statuto diplomatico?

Essi si pongono la medesima domanda che ogni uomo sulla faccia della terra si porrebbe di fronte alla morte, alla distruzione e alla rapina dei suoi beni, alla scomparsa dei parenti o dei propri bambini: perché non fuggire?

Qual è la posizione giusta?

Si confrontano così due mondi: quello di chi vuole garantire una presenza – costi quel che costi – per non cedere al terrorismo; e quello dei Cristiani perseguitati e impauriti che non concepiscono più un avvenire nel loro paese e che intendono offrire una vita sicura ai loro figli.
Certo non si può rimproverare a questi ultimi di voler salvare le loro vite e quelle dei loro figli. Si tratta di un vero dilemma: a che prezzo si deve annunciare il Vangelo?

A sentire chi ha accolto dei rifugiati, vescovi, ONG, associazioni, la maggior parte di essi – arrivati in Giordania, in Francia, in America o altrove – non intende più tornare nei luoghi che ha abbandonato. Hanno perduto ogni speranza: perché rimettersi davanti a nuove partenze? Tanto vale trovare un luogo sicuro, dove figli, nipoti e le generazioni future potranno vivere in pace senza porsi più il problema di partire.

Il caso attuale dei Cristiani d’Oriente non è isolato. Dalla nascita della Chiesa, i Cristiani sono stati vittima di numerose persecuzioni attraverso i secoli. Se i primi cristiani non si fossero protetti, nascosti, che cosa resterebbe oggi della fede cristiana? È necessario sapere riconoscere che l’esilio è legittimo, quando la minaccia della morte o la paura sono i soli argomenti che spingono alla partenza. Lo stesso, come i primi cristiani hanno osato recarsi in contesti ostili, coloro che partono condividono, con tutta la Chiesa, il dovere e la responsabilità di tornare e riprendere l’annuncio del Vangelo cominciato duemila anni fa e mai concluso. Il ritorno potrebbe esigere anni di tempo, forse più. Ma è necessario, poiché come ricorda papa Francesco nella Evangelii Gaudium, “la salvezza, che Dio realizza e che la Chiesa annuncia gioiosamente, è destinata a tutti”.

Di Pierre Loup de Raucourt (Patriarcato Latino di Gerusalemme)

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