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Il 9 agosto 1942 moriva Edith Stein. Alla fine rimarrà solo il grande amore

Le ultime tappe dell’esistenza di Edith Stein si sintetizzano in tre nomi e in tre date. Amersfoot, 2 agosto 1942: l’autista del carro d’assalto, sul quale erano state costrette a salire Edith e Rosa (sua sorella), deportate dal monastero nella rappresaglia seguita alla lettera dei vescovi olandesi contro il nazismo, sbagliò strada e così giunsero a notte già inoltrata al lager.




Westerbork: dove furono trasportate nella notte fra il 3 e il 4 agosto, e che fu così descritto da Etty Hillesum: «Nell’insieme c’è una grande ressa, a Westerbork, quasi come attorno all’ultimo relitto di una nave a cui si aggrappano troppi naufraghi sul punto di annegare. A volte si pensa che sarebbe più semplice essere finalmente deportati, che dover sempre assistere alle paure e alla disperazione di quelle migliaia e migliaia, uomini, donne, bambini, invalidi, mentecatti, neonati, malati, anziani, che in una processione quasi ininterrotta sfilano lungo le nostre mani soccorrevoli».
Auschwitz: numero 44074. Con il laconico e burocratico comunicato: «Il 9 agosto 1942 in Polonia è deceduta Stein, Edith Teresia Hedwig, nata il 12 ottobre 1891 in Breslavia, residente a Echt».
Il giardiniere del monastero di Echt, un giornalista amico e un giovane ex deportato l’avvicinarono in questi ultimi momenti. Poterono così presentarsi come testimoni oculari ai processi che aprivano la strada verso la beatificazione e scandagliavano la vita e la testimonianza di fronte alla morte certa della fenomenologa diventata carmelitana.
Edith Stein può essere così colta in presa diretta. «Parlava con umile sicurezza, tanto da commuovere chi la sentiva. Una conversazione con lei (…) era come un viaggio in un altro mondo. In quei momenti Westerbork non esisteva più… Mi disse: “Non avrei mai creduto che gli uomini potessero essere così e… che i miei fratelli dovessero soffrire tanto!”. Quando non ci fu più dubbio che dovesse essere trasportata altrove, le domandai se potevo aiutarla e (cercare di liberarla); …di nuovo mi sorrise supplicandomi di no. Perché fare un’eccezione per lei e per il suo gruppo? Non sarebbe stata giustizia trarre vantaggio dal fatto che era battezzata! Se non avesse potuto partecipare alla sorte degli altri la sua vita sarebbe stata rovinata: “No, no, questo no!”».
Il giornalista Van Kempen si trovò dinanzi «una donna spiritualmente grande e forte». Durante il colloquio fumò una sigaretta e le chiese «se ne volesse una anche lei». Mi rispose che «lo aveva fatto un tempo e che un tempo, da studentessa, aveva anche ballato».
Il giovane sopravvissuto notò un aspetto peculiare. «Era molto coraggiosa: dava le sue risposte così come era essa stessa. Quando l’SS bestemmiava, non reagiva, ma rimaneva se stessa. Non aveva assolutamente paura».
Wielek, funzionario olandese, riporta un dialogo in cui «con sicurezza e umilmente» Edith Stein disse: «Il mondo è formato da contrasti… Ma la finale non sarà formata da questi contrasti. Rimarrà solo il grande amore. Come potrebbe essere diversamente?».
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Dal carmelo di Echt alle camere a gas di Birkenau
Il destino in sette giorni
(da Westerbork FERDINANDO CANCELLI)
Echt, Maastricht, Amersfoort, Westerbork, Birkenau. Tra l’arresto della sera del 2 agosto alla morte nelle anonime camere a gas di Birkenau trascorsero solamente sette giorni: in una sola settimana di settantacinque anni fa si compiva il destino delle sorelle Rosa e Edith Stein.
«Vieni, andiamo per il nostro popolo» disse Edith incoraggiando Rosa che lasciava il carmelo di Echt tra le lacrime. I testimoni raccontano di una piccola folla, di qualche protesta nonostante la macchina della Gestapo avesse avuto la precauzione di attendere le sorelle Stein non di fronte alla porta del carmelo ma all’incrocio con la Peijerstraat, un centinaio di metri più lontano. Poco dopo una portiera si chiude sulla vita di due donne innocenti.

Il carmelo di Echt è rimasto lo stesso: un’austera facciata in mattoni rossi, un piccolo portone, l’ingresso della chiesa che si affaccia sulla Bovensestraat, molti negozi moderni che risparmiano solamente questo breve tratto di mura dall’aspetto antico. Il campo di transito di Amersfoort e quello di Westerbork sono lontani da Maastricht e da Echt, verso il nord est dell’Olanda, persi in un reticolo di canali e di vie d’acqua che portano in terra il cielo di questa luminosa estate olandese.
Il 4 agosto del 1942 Edith e Rosa, insieme a molti altri ebrei, arrivano a Westerbork. Ancora oggi, sulla sinistra dell’ingresso di quel poco che resta del campo, si nota la casa del comandante: una villetta ben progettata oggi racchiusa da una gigantesca teca di vetro. Le tende alle finestre del primo piano cadono immobili e lugubri dietro ai vetri, gli stessi da cui molte volte vari comandanti avranno gettato uno sguardo indifferente sul dramma indicibile di tante vite stravolte.
Il vetro — ci diciamo — protegge la casa o protegge chi la guarda? Si potrebbe sostenere infatti la visione diretta, dietro le tende, di tanta normalità di fronte a un simile abisso di sofferenza?
E poi gli alberi: con commozione guardiamo le querce, i tigli e le betulle che si innalzano un po’ ovunque nei dintorni. Loro sono davvero gli ultimi testimoni diretti: in quei giorni di settantacinque anni fa molti erano già presenti quando Rosa ed Edith aspettavano di salire sul treno che le avrebbe condotte a morire lontano.
Camminiamo nei verdissimi prati del campo pensando a quei momenti terribili: il buio che si intravede dietro le finestre della casa del comandante è appena un pallido residuo della tenebra che avvolgeva in quell’epoca la brughiera del Drenthe.

«Abbiamo vissuto una giornata davvero strana — scrive Etty Hillesum che in quell’agosto si trovava a Westerbork per aiutare le persone in transito — Un trasporto ci ha portato dei cattolici ebrei o degli ebrei cattolici, monache e monaci che portano la stella gialla sui loro abiti monastici. Mi ricordo due ragazzi, gemelli, il cui bel viso bruno evocava il ghetto che, lo sguardo colmo di una serenità infantile sotto il loro cappuccio, raccontavano amabilmente, tutt’al più lievemente stupiti, che erano venuti ad arrestarli alle quattro e mezza durante il mattutino e che ad Amersfoort avevano dato loro del cavolo rosso (…). Su tutto — continua la Hillesum — il crepitare ininterrotto di una batteria di macchine da scrivere: la mitragliatrice della burocrazia (…). Più tardi qualcuno mi ha raccontato che la sera stessa aveva visto un gruppo di religiose avanzare lentamente nella penombra tra due baracche scure recitando il loro rosario, imperturbabili come se si trovassero nel chiostro della loro abbazia. Ho anche incontrato — conclude — due religiose appartenenti a una famiglia ebraica molto ortodossa, ricca e istruita di Breslau, con la stella gialla cucita sul loro abito monastico».
Il 9 agosto del 1942 Rosa ed Edith Stein, dopo due spaventosi giorni di viaggio, scomparivano con altre migliaia di persone nell’abisso di Birkenau.




Fonte L’Osservatore Romano archivio

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