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Giubileo «ecumenico» per tutti gli uomini di buona volontà

Giubileo «ecumenico» per tutti gli uomini di buona volontàLa traccia giovannea nell’Anno Santo della Misericordia

Prima la misericordia poi il resto. Una concezione della sua missione che fa di Papa Bergoglio non solo il Capo della Chiesa o il portavoce dell’intera cristianità, bensì un interlocutore e referente morale di «tutti gli uomini di buona volontà», secondo la lezione del suo maestro Giovanni XXIII. Il predecessore cui Francesco maggiormente si ispira nel magistero e che ha proclamato Santo a piazza San Pietro nella stessa cerimonia di canonizzazione di Karol Wojtyla.

Mettendo in fila i momenti della sua predicazione si scopre un costante richiamo alla misericordia come strumento di evangelizzazione in un mondo secolarizzato e confuso che ha smarrito molti valori ereditati da una fede radicata malgrado infedeltà e inadeguatezze. Occorre rinnovare la scelta missionaria per «arrivare a tutti con il balsamo della misericordia, specialmente a chi si sente lontano e ai più deboli», ha raccomandato il 26 aprile 2015 Francesco ai partecipanti al convegno delle presidenze diocesane di Azione cattolica. L’invito del Pontefice è di lavorare per un rinnovato slancio apostolico, animato dalla forte passione per la vita della gente, per contribuire così alla trasformazione della società e orientarla sulla via del bene. Il presidente emerito della Corte Costituzionale, Giovanni Maria Flick parlando due anni fa alla fondazione Centesimus annus ha precisato che nell’origine ebraica di ciò che oggi traduciamo con misericordia, l’Antico Testamento indica la misericordia con l’espressione rehamim, che propriamente designa le «viscere» (al singolare, in senso materno, ventre). Della misericordia iniziale, Dio conserva memoria per gli uomini: a condizione che gli uomini siano fervidi nella speranza di riceverla, fino all’insistenza, fin quasi all’insolenza.

Per Francesco l’obiettivo del Giubileo della misericordia è sollecitare la Chiesa a calarsi nella realtà. «La teologia non può prescindere da un tempo e da uno spazio preciso che è il mondo reale. Dio, infatti, non parla in astratto, ma alle persone concrete che vivono in una data epoca», ha evidenziato il cardinale Pietro Parolin, segretario di Stato che il 24 aprile 2015 ha tenuto a Padova una conferenza nella Facoltà teologica del Triveneto in piena concordanza con il richiamo di Francesco a una teologia incarnata che metta i teologi a confronto con il mondo contemporaneo e con i suoi problemi quali le «nuove migrazioni» di fronte alle quali occorre «farsi portatori di istanze etiche capaci di trasformarsi in azioni politiche necessariamente condivise».

Giubileo «ecumenico» per tutti gli uomini di buona volontà

Una condivisione, osserva il cardinale Parolin, «che va oltre gli stessi legami europei, trattandosi di una realtà le cui cause sono determinate da una comunità internazionale in cui i responsabili, Stati e istituzioni intergovernative, sono preoccupati di garantire equilibri sempre più precari piuttosto che puntare a una stabilità e costruire situazioni pacifiche». Insomma Jorge Mario Bergoglio mette al centro la necessità del dialogo in un mondo aperto: «Il mondo che Francesco descrive e interpreta è un mondo aperto, dove in principio non esistono situazioni o abitudini precostituite, ma è un mondo di relazioni e di dialogo, due aspetti che sono per lui una regola di vita», spiega il cardinale Parolin. E infatti dalla prima intervista concessa da Francesco alla carta stampata nel settembre 2013 emergono proprio queste linee-guida del «pontificato della misericordia». La misericordia è il sentimento di compassione per l’infelicità altrui, che spinge ad agire per alleviarla. Misericordioso è lo sguardo del Papa figlio di migranti sull’umanità ferita del terzo millennio. «Senza la misericordia la nostra teologia, il nostro diritto, la nostra pastorale corrono il rischio di franare nella meschinità burocratica o nell’ideologia», scrive il 3 marzo 2015 Francesco in una lettera all’arcivescovo di Buenos Aires Mario Poli. «Dobbiamo guardarci da una teologia che si esaurisce nella disputa accademica o che guarda l’umanità da un castello di vetro. Si impara per vivere: teologia e santità sono un binomio inscindibile. La teologia che elaborate sia dunque radicata e fondata sulla Rivelazione, sulla «Tradizione», ma anche accompagni i processi culturali e sociali, in particolare le transizioni difficili. In questo tempo la teologia deve farsi carico anche dei conflitti: non solamente quelli che sperimentiamo dentro la Chiesa, ma anche quelli che riguardano il mondo intero e che si vivono lungo le strade dell’America Latina».

Perciò «non accontentatevi di una teologia da tavolino. Il vostro luogo di riflessione siano le frontiere. E non cadete nella tentazione di verniciarle, di profumarle, di aggiustarle un po’ e di addomesticarle. Anche i buoni teologi, come i buoni pastori, odorano di popolo e di strada e, con la loro riflessione, versano olio e vino sulle ferite degli uomini». Opera di misericordia nella morale cristiana è un’opera in cui si esercita la virtù della misericordia, e, con significato più generico, è un atto di bontà, di carità verso chi soffre. «Dio perdona tante cose, per un’opera di misericordia», scrive Alessandro Manzoni nei «Promessi Sposi». Con il Giubileo Francesco vuole accompagnare e accogliere l’uomo concreto con le sue ferite e contraddizioni e non farne un’astrazione.

Il cardinale Walter Kasper, presidente emerito del Pontificio Consiglio per l’Unità dei Cristiani, indica nella misericordia il senso ultimo della predicazione di Francesco per il quale riflettere teologicamente sulla misericordia induce a porsi le questioni fondamentali della dottrina su Dio.

Insomma la Misericordia Divina costituisce il nucleo e la somma della rivelazione biblica su Dio.

Conversando con padre Antonio Spadaro, direttore della «Civiltà Cattolica», lo storico quindicinale dei Gesuiti, l’ordine del quale fa parte anche Jorge Mario Bergoglio chiarisce che la Chiesa è misericordia. Prima dei princìpi, insomma, viene il «kerygma», l’annuncio che il Vangelo è amore, accoglienza verso tutti. L’immagine di Chiesa che Francesco preferisce è quella espressa dal Vaticano II nella Lumen Gentium, «del santo popolo fedele di Dio. Sentire cum Ecclesia per me è essere in questo popolo. E l’insieme dei fedeli è infallibile nel credere, e manifesta questa sua infallibilitas in credendo mediante il senso soprannaturale della fede di tutto il popolo che cammina. Non bisogna dunque neanche pensare che la comprensione del “sentire con la Chiesa” sia legata solamente al sentire con la sua parte gerarchica”: riguarda tutta la Chiesa, popolo e pastori. Una Chiesa che Francesco non riduce a “una piccola cappella che può contenere solo un gruppetto di persone selezionate. Non dobbiamo ridurre il seno della Chiesa universale a un nido protettore della nostra mediocrità”. Il Papa sogna “una Chiesa Madre e Pastora”. “La Chiesa è feconda, deve esserlo. Quando mi accorgo di comportamenti negativi di ministri della Chiesa o di consacrati o consacrate, la prima cosa che mi viene in mente è: “Ecco uno scapolone”, o “ecco una zitella”. Non sono né padri, né madri. Non sono stati capaci di dare vita”».

Di Giacomo Galeazzi per Vatican Insider (La Stampa)

 

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