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Gaza, Ban ki-moon: Deponete le armi, iniziate i negoziati di pace

BANDeponete le armi, iniziate i negoziati di pace. Questo l’appello a israeliani e palestinesi del segretario generale dell’Onu Ban Ki-moon, giunto oggi in Israele. Nella Striscia di Gaza però proseguono le violenze: il bilancio è salito ad oltre 600 vittime. Il servizio è di Giada Aquilino per la Radio Vaticana:

Lo stesso messaggio, per israeliani e palestinesi. Ci ha tenuto a precisarlo Ban Ki-moon, nella conferenza congiunta col premier dello Stato ebraico Benjamin Netanyahu, subito dopo il loro colloquio a Tel Aviv. “Fermate i combattimenti, cominciate a parlare delle cause che – ha detto – sono alla radice del conflitto”, affinché la crisi non si protragga ancora. Dal numero uno del Palazzo di Vetro è arrivata la condanna dei lanci di razzi di Hamas, ma Ban ha chiesto pure “massimo autocontrollo” da parte israeliana. Netanyahu ha invece paragonato Hamas all’Isis, ad al Qaida e a Boko Haram. Continua intanto a salire il bilancio delle operazioni militari: oltre 600 le vittime palestinesi e 3.700 i feriti; 28 i militari israeliani uccisi. Secondo l’Onu, la situazione è sempre più “devastante” nella Striscia di Gaza, dove “letteralmente non ci sono luoghi sicuri per i civili”. Dal Cairo, il segretario di Stato americano John Kerry torna sulla proposta egiziana di cessate il fuoco: c’è ancora lavoro da fare, ha detto, ma gli sforzi vanno compiuti in quella direzione.

Meri Calvelli è una cooperante italiana, da anni vive a Gaza. Ha vissuto altre operazioni israeliane contro Gaza, compresa quella finora più drammatica, tra il 2008 e il 2009, denominata “Piombo Fuso”. Ciò che sta accadendo in questi giorni però, spiega al microfono di Francesca Sabatinelli, è completamente diverso. Ascoltiamola:
R. – Ci sono delle grosse differenze. In genere, gli attacchi militari sono sempre stati una punizione collettiva su questa popolazione. A oggi, la popolazione di Gaza è arrivata ad un punto di non più accettazione della situazione attuale, quindi dopo anni e anni di embargo, di chiusura delle frontiere, di prigione nella quale è costretta a vivere, a far nascere e, purtroppo, far morire i propri bambini, non è più disposta ad accettarlo. Quindi, questa operazione militare è iniziata in un modo e invece sta andando avanti in un altro, sta diventando un vero e proprio confronto, anche sul terreno, anche a livello di guerra, anche se le forze militari sono completamente diverse. Però, la differenza è che c’è una risposta dall’interno, a livello militare, che nel passato non si era mai verificata così forte. Quello che vedo è che sì, è vero, loro stanno facendo un confronto militare, però la gente tutta ti dice: morivamo. Stavamo morendo, dentro Gaza! Non avevamo prospettive, non avevamo futuro davanti a noi. Quindi, se moriamo stando qui, chiusi qui dentro come topi, o se moriamo in guerra, a noi non cambia niente: sempre morte è. Di fatto, la realtà è che sono stati uccisi soltanto civili, colpite strutture che sono civili. Da quando, poi, è iniziata l’operazione di terra, hanno incominciato anche dal confine, con i cannoni, con l’artiglieria, a non smettere mai di sparare. Lungo tutti i confini della Striscia di Gaza. E chiaramente, davanti ai confini ci sono le case.

D. – Questo è quello che è accaduto domenica scorsa a Shejaiya, dove ci sono state oltre 90 vittime civili…
R. – Shejaiya sì, che è stata la prima parte a nordest, la prima parte a essere attaccata dall’artiglieria, dai cannoni, dalle forze di terra, è stato il primo massacro grosso. A distanza di due giorni, si scava nelle macerie ma non si riesce nemmeno a scavare, perché continuano i bombardamenti e quindi non viene data la tregua per andare lì. Se ti avvicini a quel sito ti sparano, immediatamente: continua a sparare l’artiglieria, continuano a bombardare da sopra. Si sente una puzza di morte incredibile, oltre alle 90 persone, ai loro corpi tirati fuori dalle macerie, purtroppo ce ne saranno anche chissà quanti altri.

D. – Ci sono persone che non hanno voluto abbandonare le case, ma ce ne sono tanti che stanno cercando riparo…
R. – Certo, certo. Se all’inizio sono rimasti e sono morti, purtroppo, lì dentro, come è successo a Shejaiya, altri, nelle notti seguenti, quando hanno continuato pesantemente dopo l’esempio di Shejaiya, hanno chiaramente cominciato a scappare dalle case. Ormai, si parla di 150 mila sfollati lungo tutto il confine. Tra l’altro, per fare un esempio, la gente sta dentro le strutture dell’Unrwa (United Nations Relief and Works Agency, agenzia dell’Onu per il soccorso ai profughi) però non ha i materassi per dormire, non ha dove dormire, quindi sta lì, in piedi o sui seggiolini o per terra magari con una coperta che sono riusciti a portarsi dietro.

D. – Dal punto di vista strettamente medico-sanitario, manca tutto, però Israele ha appena rifiutato una tregua umanitaria…
R. – Sì, sì, questa mattina, appunto, avrebbe dovuto esserci questa tregua di cinque ore – se ne parlava da ieri sera – ma all’ultimo momento Israele l’ha rifiutata. I medicinali, certo, gli ospedali li richiedono dall’inizio dell’operazione, perché i feriti sono stati subito moltissimi. Quindi, certo, c’è tutta la questione sanitaria. Ma anche la questione igienico-sanitaria è un altro dei problemi grossi, la mancanza dell’acqua. Oltretutto, è un’operazione militare che ha messo in pericolo non poco anche la stessa popolazione di Israele, l’esacerbarsi di questa situazione, come si vede, ha creato questo braccio di ferro fortissimo tra le due autorità e adesso nessuno vuole cedere, anche perché – ripeto – qua la gente non vuole più tornare indietro, ormai ha pagato talmente alto il prezzo, purtroppo è quello che ti dice, che vuole andare avanti affinché la situazione cambi realmente, perché Gaza dev’essere aperta.

D. – Come state vivendo, voi?
R. – Ci sono i droni che ronzano tutto il giorno, ci sono i passaggi aerei, c’è la marina che spara a seconda dei momenti… Ecco, adesso questo non so se lo sentite, è il drone: sta qua sopra. Ora tra un po’ gira che ti rigira, poi sgancia da qualche parte. Poi, è chiaro, ci sono zone più colpite e altre che sono meno colpite. Quando vai in giro, eh, vai a tuo rischio e pericolo. In questo momento in particolare, poi, nonostante all’inizio abbiano detto: “Ah, ma noi staremo attenti ai civili, staremo attenti alle agenzie che si muovono, staremo attenti ai giornalisti”, solo parole! Bisogna assolutamente far pressione sui nostri governi e i nostri governi devono fare pressione, assolutamente devono far pressione su Israele, per fermare il massacro dei civili.

John Kerry torna quindi in Medio Oriente, dopo il fallimento, quest’anno, dell’iniziativa diplomatica di pace tra Israele e Autorità palestinese. Ma cosa può fare la comunità internazionale per questa crisi? Michele Raviart lo ha chiesto a Ianiki Cingoli, direttore del Centro italiano per la pace in Medio Oriente:
R. – C’è una situazione di vuoto diplomatico internazionale, entro cui si inserisce questa crisi. Probabilmente, sarebbe utile l’iniziativa dell’Unione Europea, una volta che si è assestata la sua politica estera, che come sappiamo è un po’ travagliata, per ripartire da dove John Kerry si era fermato: da quella proposta di accordo quadro, che però non aveva avuto l’assenso delle parti. Ripartire da lì, da un’intesa con gli Stati Uniti, non in antitesi a loro, e avanzare una proposta anche in sede di Consiglio di sicurezza dell’Onu.

D. – L’incontro tra Kerry e la Lega Araba, in questo senso, che significato può avere?
R. – La Lega Araba in questo momento è controllata dall’asse Egitto-Arabia Saudita, che è un’asse certamente non molto favorevole ad Hamas. Infatti, quello che è abbastanza significativo è il silenzio di tutti questi Paesi, rispetto a quello che sta succedendo. Al di là di qualche dichiarazione formale.

D. – Qual è oggi il rapporto di Hamas con il mondo arabo?
R. – Hamas è in crisi perché gli è venuto a mancare l’appoggio egiziano, con la caduta di Morsi e la venuta al governo del presidente Sisi, che ha messo fuorilegge i Fratelli musulmani, di cui Hamas è una costola. L’Egitto resta comunque un Paese chiave, perché controlla i valichi e ha un peso rispetto a Gaza. Non ha più rapporti positivi con l’Iran. Gli resta un po’ di appoggio del Qatar e della Turchia, ma non è che sia sufficiente. Così come l’Egitto non è ben visto da Hamas, Qatar e Turchia non sono però ben visti da Israele. L’elemento possibile di sblocco potrebbe essere proprio il presidente palestinese, Mahmud Abbas.

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