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Egitto: il racket delle spose forzate convertite all’Islam

Rapite: con la forza o con l’inganno. Strappate alle loro famiglie e costrette ad abbandonare la fede cristiana. In Egitto i rapimenti di giovani copte non rappresentano affatto una novità: già durante la presidenza Sadat si registrarono diversi episodi. Tuttavia dopo la caduta di Mubarak il numero di casi è aumentato in modo esponenziale. «Prima della rivoluzione sparivano quattro o cinque ragazze al mese, oggi la media è di quindici», dichiara ad Aiuto alla Chiesa che Soffre Ebram Louis, fondatore dell’Associazione per le vittime di rapimenti e sparizioni forzate (AVAED), organizzazione che garantisce alle vittime e alle loro famiglie assistenza medica, psicologica e legale. «Dal 2011 si ritiene siano state almeno 550 le cristiane rapite», afferma l’attivista. Peraltro è quasi impossibile fornire stime esatte, poiché spesso i crimini e gli aggressori non vengono né riferiti né denunciati. In Egitto una donna violentata è tuttora motivo di vergogna per la sua famiglia. Secondo l’AVAED, nel 40% dei casi le giovani – di età compresa tra i 14 e i 40 anni – vengono rapite, violentate e in seguito costrette a sposare il proprio carnefice dopo essersi convertite all’islam. Altre vittime vengono invece plagiate da giovani musulmani che prima si guadagnano la loro fiducia, quindi le obbligano a convertirsi e a contrarre matrimonio islamico. In preparazione alle nozze gli aguzzini cancellano con l’acido la croce tatuata sul loro polso: simbolo di una fede cristiana portata con orgoglio da molti esponenti della minoranza copta.

L’elevato numero di ragazze scomparse e il ripetersi di un identico modus operandi hanno convinto avvocati, attivisti e sacerdoti – da tempo impegnati a combattere una piaga tanto atroce – che dietro ai sequestri vi sia una organizzazione capillare. Lo conferma ad ACS l’avvocato cristiano Said Fayez: «In Egitto vi sono molteplici cellule islamiche dedite esclusivamente ai rapimenti di donne copte». Fayez riferisce inoltre di numerose cristiane che, una volta sfuggite ai sequestratori, chiedono di ritornare alla propria fede: almeno cinquemila negli ultimi diciotto mesi. «Chi di loro ha avuto dei figli dal matrimonio forzato deve però attendere – spiega l’avvocato -. Se lasciassero l’islam per riabbracciare il cristianesimo perderebbero i loro bambini, poiché la legge egiziana stabilisce che i figli piccoli debbano vivere con il genitore che pratica la “vera fede”. E ovviamente per “vera fede” s’intende l’islam». Le poche informazioni disponibili riguardanti i sequestri sono tratte dalle testimonianze delle ragazze che sono riuscite a fuggire. Come Ingy, ancora minorenne, che si è tagliata le vene dei polsi due volte per convincere i suoi carcerieri a liberarla. In molte però non hanno avuto la stessa fortuna. Come la piccola Nadia Makram, rapita nel 2011 a soli 14 anni. I genitori di Nadia conoscevano il nome del suo rapitore – Ahmed Hammad, un musulmano di 48 anni – e si sono rivolti immediatamente alla polizia. L’uomo non è stato arrestato. Stando ai numerosi episodi documentati dall’AVAED, spesso la polizia si rifiuta di cercare le ragazze sostenendo che queste abbiano abbandonato spontaneamente la casa paterna. Se poi le giovani vengono ritrovate e convocate alla stazione di polizia, quasi sempre sono accompagnate dai nuovi “parenti” musulmani, perfino in occasione del colloquio che dovrebbe servire ad appurare l’avvenuto sequestro. Comprensibilmente in molte confermano d’aver lasciato la famiglia d’origine senza alcuna costrizione.

La vicenda di Nadia, e di altre bambine rapite e costrette alle nozze, è ancor più grave. Perché la legge egiziana vieta il matrimonio e la conversione delle minorenni, anche se queste si dichiarano consenzienti. Eppure nel 2012, quando la ragazza appena quindicenne aveva già dato alla luce il suo primo figlio, il caso è stato archiviato e il marito prosciolto. All’uomo è stato sufficiente mostrare un certificato di matrimonio che attestava la “regolare” unione con la sua minorenne consorte. Aiuto alla Chiesa che Soffre sostiene da diversi anni i progetti della Chiesa cattolica egiziana relativi alla promozione della dignità della donna. a cura della Redazione Papaboys*

 

 

* “Aiuto alla Chiesa che Soffre” (ACS), Fondazione di diritto pontificio fondata nel 1947 da padre Werenfried van Straaten, si contraddistingue come l’unica organizzazione che realizza progetti per sostenere la pastorale della Chiesa laddove essa è perseguitata o priva di mezzi per adempiere la sua missione. Nel 2012 ha raccolto oltre 90 milioni di euro nei 17 Paesi dove è presente con Sedi Nazionali e ha realizzato oltre 5.604 progetti in 140  nazioni. 

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