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Editoriale del Direttore dell’Osservatore Romano: Sinodo e comunione

A sorpresa, mezzo secolo fa Paolo VI istituiva il Sinodo dei vescovi, che in questi anni si è progressivamente rivelato nei fatti un prezioso organismo di comunione per la crescita della Chiesa universale. Era il 14 settembre 1965, giorno d’inizio del quarto e ultimo periodo del concilio, e le acque non erano tranquille.

I lavori del Vaticano II si erano chiusi nel novembre precedente con una serie di incidenti che avevano fatto parlare di una “settimana nera”. Le nubi addensatesi erano però state disperse sui media già all’inizio di dicembre dal viaggio di Montini in India e poi in marzo dalla prima messa celebrata dal Papa in italiano in una parrocchia di Roma, con un sostegno aperto alla prima riforma conciliare.

Molti nodi restavano però da sciogliere per arrivare alla redazione definitiva e all’approvazione della stragrande maggioranza dei documenti del Vaticano II: tra l’altro, sulla Chiesa nel mondo contemporaneo, sull’ecumenismo, sui rapporti con le grandi religioni e con l’ebraismo, sulla questione della libertà religiosa. Determinata era la minoranza opposta alla volontà di “aggiornamento” indicata già da Giovanni XXIII all’apertura del concilio e poi espressa da una maggioranza molto larga. Ma determinante, insieme al lavoro — in aula e dietro le quinte — di molti padri ed esperti, fu la scelta del Papa di ottenere, con pazienti mediazioni e gesti chiari, il massimo dei consensi possibile sulla linea riformatrice, come poi avvenne.

Nel lungo discorso di riapertura Paolo VI non entrò nei temi dibattuti nell’assemblea — per «non prevenire con la nostra parola la libera orientazione delle vostre opinioni circa le materie proposte» — ma volle rinnovare con forza la fiducia al Vaticano II: «Grande cosa è questo concilio!», grande quiddam hoc est concilium! proruppe il Papa. E, dopo i ringraziamenti a chi stava lavorando senza apparire, annunciò due novità, salutate in aula da ripetuti applausi: un sinodo dei vescovi, «composto di presuli, nominati per la maggior parte dalle Conferenze episcopali» e «convocato, secondo i bisogni della Chiesa, dal Romano Pontefice, per sua consultazione e collaborazione», e una visita alla sede delle Nazioni Unite a New York.

All’annuncio seguì una nuova sorpresa quando l’indomani, 15 settembre, Paolo VI scese a San Pietro per ascoltare con i padri conciliari la lettura del motuproprio, intitolato Apostolica sollicitudo, che istituiva il nuovo organismo. Nel dibattito in aula e in una bozza preparatoria del documento sui vescovi si era auspicata la creazione di un consiglio di presuli, ma il Papa giocò d’anticipo. Per la nuova istituzione Montini significativamente scelse il nome greco (sýnodos, “cammino insieme”) delle più antiche riunioni episcopali, e soprattutto introdusse un elemento nuovo di collegialità nel cuore della Chiesa.

In cinquant’anni il cammino del Sinodo dei vescovi è stato lungo e non sempre facile. Ma se su un piano teologico le valutazioni sono state e possono essere diverse, da un punto di vista storico — peraltro non immune da pregiudizi appunto teologici, che certo non facilitano la comprensione dei fatti — è fuori di dubbio che l’istituzione sinodale voluta da Montini ha di fatto contribuito, sulla scia del Vaticano II, alla crescita di una collegialità vissuta e più in generale della comunione cattolica. Grazie alla garanzia di libertà e di fedeltà alla parola di Cristo assicurate dal successore di Pietro, come ha ripetuto il Papa concludendo l’ultimo sinodo straordinario sulla famiglia.

Redazione Papaboys (Fonte L’Osservatore Romano)



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