L’importante era partecipare non vincere. Creare intorno a sé un’atmosfera ludica, partecipativa, di sana emulazione. Circolava il detto latino “mens sana in corpore sano”, l’interazione e il coinvolgimento di tutta la persona era dato per scontato e premiato non da un lucroso assegno o da una rinomanza di celebrità, quanto dalla certezza di un esito acquisito con fatiche, astensioni. Trasparenza di rapporti e collaborazione con l’allenatore. Quando si perdeva non ci si accasciava al suolo e ci si disperava contorcendosi e recriminando, ci si avvicinava all’avversario per una stretta di mano e un “ha vinto il migliore”.
Sport però era, diciamo, sport. Una componente della gioventù e della vita, non era il solo aspetto della vita che, una volta, compiuta la parabola giovanile lasciava in mano un pugno di mosche e di delusione. Erano momenti esaltanti, di tifo sano e di ancora più sano incitamento verso chi gareggiava.
Penso oggi al morso in faccia all’avversario steso a terra, dopo un corpo a corpo. Questo tipo di sport e di gara non è volto a modellare una personalità matura, psichicamente padrona di sé, scatena gli istinti peggiori, quelli che, forse, giacciono dentro di noi ma richiedono appunto addestramento per essere vinti e per non esplodere animalescamente. Chi morde non aveva creato in sé uno spirito agonistico, di lieta giocosità, mirava ad altro. Mi domando se la differenza, constatabile e innegabile, sia dovuta al fatto che noi, per fare sport, si pagava, ci si iscriveva ad un club sportivo e oggi si è profumatamente pagati? Non sono discorsi da galateo sorpassato, sono pungenti interrogativi che si dicono: ai nostri giovani, quando non sono obesi e incollati al display, quale sport offriamo? Quali reazioni dobbiamo attenderci?
Cristiana Dobner