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Card. Turkson: non sono le risorse che provocano la guerra, ma la politica

turksonBasta con le politiche di austerità, servono investimenti pubblici capaci di sostenere la domanda: è quanto chiede l’Unctad, la Conferenza delle Nazioni Unite sul commercio e lo sviluppo, in occasione della pubblicazione del suo rapporto annuale. Alla presentazione del rapporto a Roma era presente anche il cardinale Peter Turkson, presidente del Pontificio Consiglio della Giustizia e della Pace, che ha parlato del legame tra sviluppo e pace. Eugenio Bonanata lo ha intervistato:

R. – Non si può realizzare una pace duratura senza lo sviluppo. E come possiamo promuovere, mantenere, sostenere lo sviluppo? Certamente con i metodi di commercio che abbiamo: lo scambio di doni, di culture, di talenti e di tutte le nostre scoperte. Allora sarà molto importante ascoltare ciò che ha detto Papa Benedetto: per facilitare lo sviluppo abbiamo bisogno di aderire alla logica del dono, una specie di gratuità. E questo è necessario soprattutto quando si parla dei talenti, con lo scambio di invenzioni, di creatività ecc. per promuovere lo sviluppo dei Paesi.

D. – Nel rapporto si parla anche di corruzione ed evasione fiscale, due pratiche che minano le possibilità di sviluppo…

R. – La globalizzazione, attraverso il movimento di capitali, ha indubbiamente facilitato lo sviluppo. Però, all’interno dei Paesi abbiamo spesso situazioni di disuguaglianza. Le cause sono diverse: c’è, la corruzione, il nepotismo e c’è anche il malgoverno. Conosco una persona che ha scritto un libro sul perché l’Africa è ancora povera. La sua risposta è che questa è una povertà scelta. Strano, no? Una povertà scelta vuol dire che i governi adoperano politiche che in realtà facilitano e sostengono la crescita della povertà. Quindi, dipende molto dai governi: ci vuole un buon governo per realizzare misure di sviluppo.  

D. – Un altro tema riguarda l’ingiusta redistribuzione dei ricavi che derivano dallo sfruttamento delle risorse naturali…

R. – Ad alcuni Paesi viene proposto di diventare “investor-friendly”, cioè un Paese amico degli investimenti. E cosa vuol dire? Vuol dire che le compagnie che arrivano in un Paese avranno la libertà di esportare tutti i guadagni, senza lasciare niente nel Paese; avranno libertà e tasse ridotte sulle merci. Questa situazione viene presentata sempre come “investor-friendly conditions”, condizioni che favoriscono l’arrivo di investimenti. Ma, secondo me, è qui che i governi devono mostrare un po’ di maturità. Un’investor-friendly, che poi lascia il Paese povero … non è “investor-friendly”. C’era un presidente del Ghana che diceva che tutte le cose devono esser prese dal sottosuolo e nulla dalla superficie. Questo significa lasciare la superficie ai coltivatori, all’agricoltura, eccetera. Quindi, chi vuole estrarre i minerali, deve andare “sotto”. Questo è stato un modo per far rispettare la terra che non è soltanto di chi vuole trovare queste risorse, ma anche di chi ha bisogno della superficie per la vita, per la sopravvivenza. In alcuni casi ci sono contratti stipulati centinaia di anni fa e che sono in vigore ancora oggi, nonostante le situazioni siano cambiate. Quindi, in tantissimi casi credo che sia necessaria equità da parte delle compagnie nella revisione di questi contratti. E dall’altra parte ci vuole la determinazione dei governi a chiamare in causa alcuni di questi contratti per una revisione, almeno per dare alla gente una ricompensa equa rispetto a quello che viene fatto della sua terra.

D. – Lo sfruttamento delle risorse naturali rischia spesso di provocare tensioni e addirittura conflitti….

R. – Non sono le risorse che provocano la guerra; è la politica, sono gli interessi che trasformano la presenza delle risorse in motivo di conflitto. È quello che succede in Congo, nella zona dei Grandi Laghi. Quando Bush è andato in Iraq, cosa voleva? Allora, bisogna trattare tutto ciò con un po’ di etica: l’etica non solo per il bene condiviso per i popoli, ma l’etica anche per la pace che deve regnare in questi Paesi, senza pensare unicamente al nostro guadagno. L’invito di Papa Benedetto rispetto alla logica del dono è veramente essenziale: ci invita a guardare al benessere delle altre persone che dipendono da queste risorse per la loro sopravvivenza.

Sui contenuti del rapporto, Eugenio Bonanata ha intervistato David Bicchetti, economista dell’Unctad:

R. – L’economia mondiale, anche se in parte si è ripresa dalla crisi del 2007-2008, rimane ancora molto fragile. Nel rapporto abbiamo sottolineato diversi rischi che ci sono per l’economia mondiale, sia nei Paesi sviluppati sia anche nei Paesi in via di sviluppo. La diseguaglianza, per esempio, è molto forte: avere un salario degno per i lavoratori è fondamentale, perché sostiene l’economia, la domanda e anche gli investimenti. Se i lavoratori non hanno abbastanza guadagno, si arriva, attraverso il debito, a mantenere un certo livello di vita. Però, alla fine, il debito lo si dovrà ripagare ed è lì che iniziano le crisi e anche i problemi. Il rapporto, inoltre, sulla base di nostre simulazioni, dimostra anche che, se ci fosse un’alternativa alle politiche individualiste di ogni Paese – ciascuno a modo proprio – e se ci fosse una politica economica coordinata a livello mondiale, la crescita sarebbe più consistente a livello mondiale, specialmente per i Paesi in via di sviluppo dove il tasso di crescita quasi raddoppia.

D. – Quali sono gli strumenti secondo le vostre previsioni e il vostro modello?

R. – Per noi è importante lottare contro la diseguaglianza: c’è stato un trend, in questi ultimi anni, dove i lavoratori hanno ricevuto molto meno di quello che avrebbero dovuto ricevere se ci fosse stata una divisione corretta tra i guadagni del capitale e i lavoratori. Poi, ci vuole il sostegno del governo; si deve smettere con queste politiche di austerità, si devono avere politiche espansive che sostengono l’economia. Non pensiamo che la politica monetaria da sola sia sufficiente; al contrario, ci vuole il sostegno di una politica fiscale espansiva. C’è bisogno di risorse e per questo motivo parliamo anche dell’evasione fiscale perché costa molto ai Paesi sviluppati ma anche, in particolare, ai Paesi in via di sviluppo.

D. – Fate anche delle proposte di nuove istituzioni che possano contemplare questo approccio alternativo?

R. – Ci sono istituzioni già esistenti: c’è il comitato delle Nazioni Unite per le questioni fiscali, ma questo comitato ha bisogno del sostegno di tutti i Paesi. Si deve trovare una soluzione multilaterale, non una soluzione bilaterale come sta succedendo in Europa. È un problema globale e per un problema globale ci vuole una soluzione globale. Questo è il messaggio di questo rapporto.  Fonte: radiovaticana

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