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Viaggio in India nella mecca dell’utero in affitto, dove le madri sono ‘fabbriche di bambini’

Sharmila Mackwan ha 31 anni, è vedova e ha deciso di lasciare i suoi due figli — di 9 e 12 anni — in orfanotrofio, per tutti i nove mesi in cui porterà in grembo due gemelli per conto di un’altra coppia. La sua potrebbe essere una delle ultime gravidanze surrogate legali in India, nell’ambito di quell’industria multimilionaria che porta il nome di utero in affitto, e che il governo promette ora di proibire una volta per tutte.

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La donna, in realtà, non ha molta altra scelta: è scritto nel suo contratto che, per l’intera durata della gravidanza, viva in una struttura dedicata, situata vicino alla clinica dove poi partorirà, insieme ad altre decine di donne che come lei aspettano il figlio (o i figli) di altri.
Siamo nello Stato occidentale del Gujarat, che dal 2002 a oggi è diventato il tempio della surrogazione di maternità in India. Sharmila è al quarto mese, spiega di essere spaventata, perché «è la prima volta che sono in attesa di due gemelli. Ma cos’altro posso fare? Spero solo che Dio si prenda cura di me». In cambio del suo servizio, riceverà seimila dollari, circa quattrocentomila rupie: una fortuna, impossibile da guadagnare anche in un anno di lavoro, tenendo conto che circa 270 milioni di persone su una popolazione di oltre 1,2 miliardi vivono con meno di due dollari al giorno. Ed è proprio su questo, sulla povertà endemica che affligge questo popolo, nonostante la crescita galoppante di cui l’India è stata e continua a essere protagonista da qualche anno, che la surrogazione commerciale di maternità si è aggrappata e ha prosperato. Ma a quale prezzo?
Il Paese ha aperto le porte all’utero in affitto nel 2002: senza alcun quadro legislativo, con a disposizione infrastrutture mediche di qualità e un enorme potenziale di donne povere ad alimentare la crescita di questa industria, la nazione è diventata in brevissimo tempo un hub mondiale del cosiddetto turismo procreativo, con centinaia di coppie straniere che si sono riversate in massa nel subcontinente. L’assenza di una normativa non ha reso necessari organismi di monitoraggio, e per questo — a differenza di altri Paesi — non esistono dati ufficiali. Uno studio sostenuto dalle Nazioni Unite nel luglio 2012 aveva valutato un giro d’affari del valore di oltre 400 milioni di dollari l’anno, con più di tremila cliniche sparse per tutto il Paese e circa venticinquemila bambini nati tramite surrogazione ogni anno. Tuttavia, secondo molti si tratta di stime al ribasso.
All’«Osservatore Romano» Pascoal Carvalho, medico di Mumbai e membro della Pontificia Accademia per la Vita, conferma questi sospetti: «Non si conosce la portata esatta di questo mercato. Secondo uno studio del 2012 condotto dalla Confederation of Indian Industry, l’ampiezza dell’industria della surrogazione di maternità in India era di 2 miliardi di dollari l’anno. Ma si parla di un’enorme area grigia, senza alcun tipo di regolamentazione o di meccanismo di controllo».
Nel 2005 l’Indian Council of Medical Research ha stilato delle linee-guida (Icme Guidelines) per i medici coinvolti, che anziché inserire la pratica in un quadro normativo hanno favorito ulteriormente il prosperare di malaffare e sfruttamento del corpo femminile, trasformando in modo definitivo il Paese nella mecca dell’utero in affitto. Secondo quanto stabilito da queste linee-guida, infatti, la surrogata non può essere geneticamente legata al bambino che metterà al mondo, e i suoi diritti e obblighi verso gli aspiranti genitori e il piccolo sono indicati nel cosiddetto accordo di surrogazione. Il contratto specifica in modo chiaro che il bambino nato dalla surrogazione sarà legalmente riconosciuto come figlio della coppia commissionante, e che la surrogata non può dunque rifiutarsi di “dare” il piccolo. Nel caso in cui la donna si opponga, l’accordo serve quindi come appiglio giuridico per intentarle causa.
E se fossero invece gli aspiranti genitori a non volere più il bambino? Secondo le Icmr Guidelines, la coppia è obbligata per legge a prendere il piccolo, ma non esistendo — di fatto — una legge, ecco un primo, enorme vuoto legale che ha permesso casi come quello di Baby Manji.
L’episodio risale al 2008. Un anno prima, i giapponesi Ikufumi e Yuki Yamada si recano in India ad Anand, presso la clinica della dottoressa Nayana Patel, la più famosa del Paese per l’utero in affitto. Il medico cura la creazione di un embrione dallo sperma di Ikufumi e dall’ovulo di una donatrice indiana anonima, impiantandolo poi in Pritiben Mehta. Nel giugno 2008 la coppia divorzia e un mese dopo la surrogata mette al mondo Baby Manji. L’uomo è deciso a tenere il neonato, ma non Yuki. Di fatto, in India era stato appena messo al mondo un bambino con potenzialmente tre madri — donatrice anonima, surrogata e commissionante — ma nessuna da poter chiamare tale. Il contratto di surrogazione, infatti, non prevedeva una svolta di quel tipo, e nessun provvedimento poteva risolvere il problema: la nazionalità e la parentela di Baby Manji non potevano essere definite né secondo la legge giapponese, né secondo quella indiana. Dopo 25 giorni di crisi diplomatica e legale, la custodia del piccolo viene affidata alla nonna paterna, 74 anni.
Complicazioni di questo tipo, in effetti, sono rare, o comunque poco documentate. La possibilità di avere un figlio con il proprio patrimonio genetico (o di almeno uno dei due partner), e a un prezzo decisamente inferiore rispetto agli standard statunitensi, dove l’utero in affitto ha preso piede, ha fatto chiudere più di un occhio di fronte a quello che è accaduto in questi anni in India. In effetti, il “risparmio” per la coppia commissionante è più che evidente. In California, uno dei diciotto Stati americani dove la surrogazione commerciale è legale (e, in assoluto, il più surrogacy friendly), il servizio costa all’incirca 150.000 dollari, di cui 59.000 destinati alla surrogata, 75.000 alle pratiche mediche e prenatali (inclusa, quindi, la creazione dell’embrione tramite fecondazione in vitro) e 16.000 in costi legali e logistici. In India invece il costo complessivo è di circa 38.500 dollari se la donatrice di ovuli è straniera, 24.500 se indiana; nel complesso, fra i 5.000 e i 6.000 vanno alla surrogata. «Da noi la surrogazione ha un prezzo ragionevole», spiega Carvalho, «anche per quanto riguarda le agenzie, le strutture dove stanno le donne durante la gravidanza, i medici, le cliniche per la fertilità, gli esperti legali e gli intermediari».
Accanto all’evidente convenienza economica per gli aspiranti genitori, negli anni c’è stato anche un far leva sulla condizione delle donne che si prestano come surrogate. «Nel linguaggio comune — osserva Carvalho — le madri surrogate sono chiamate “fabbriche di bambini” e la dignità della vita umana e di queste donne è a rischio. Le madri surrogate in India sono generalmente povere, prevalentemente illetterate, usano la surrogazione come un’opportunità per migliorare la loro condizione finanziaria, essendo al contempo non a conoscenza o non volendo ammettere i fattori di rischio che riguardano una surrogazione». Tuttavia, «anche se è una scelta della donna essere una madre surrogata, è comunque costretta a farlo per sostenere economicamente la propria famiglia. In altre parole, se pure non fossero altre persone a forzare la mano, è la propria condizione sociale a farlo. Sebbene fare da surrogata rappresenti temporaneamente un fattore di emancipazione, perché la mette nelle condizioni di guadagnare e aiutare la propria famiglia, la sua capacità riproduttiva è semplicemente trattata come un oggetto a fini commerciali».
«Parte della fortuna dell’utero in affitto», continua il medico, «è stato mettere in luce le enormi opportunità che una pratica del genere può offrire alle madri surrogate, per non parlare del ritratto altruistico che viene fatto della loro prestazione: un assistere coppie sterili, per esaudire il tanto sospirato desiderio di avere un bambino con legami biologici».
Il punto, tuttavia, è che non è tutto oro quel che luccica. E pure a voler credere che di casi come quello di Baby Manji ce ne siano stati pochi, quel che è certo sono le condizioni in cui sono state messe le madri surrogate dell’India. Donne costrette dai mariti e dalle loro famiglie a usare il loro corpo per guadagnare soldi; contratti firmati senza comprendere cosa ci fosse scritto dentro; fino a cinque embrioni impiantati per volta, per aumentare le probabilità di una gravidanza. Salvo poi, in caso di successo, compiere aborti selettivi per ridurre i rischi legati a un parto plurigemellare. «Non solo in ogni grande città indiana è possibile trovare cliniche per la surrogazione», sottolinea Carvalho, «ma anche in circoscrizioni-satellite, con agenti senza scrupoli in cerca di povere donne sventurate da convincere a prestarsi come surrogate».
È proprio con l’emergere di questa realtà che il governo dell’India si è trovato costretto a fare qualche cosa. Un primo passo è avvenuto nel 2012, con il divieto alle coppie omosessuali e ai single di accedere ai servizi di surrogazione. Poi, nell’ottobre del 2015, la Corte suprema dell’India ha osservato che «la surrogazione commerciale non dovrebbe essere ammessa, ma nel Paese va avanti. Il governo sta permettendo il traffico di embrioni umani. Sta diventando un business che si è evoluto in turismo procreativo».
Il tribunale si è espresso dopo aver esaminato il caso dell’avvocato Jayashree Wad, che nel febbraio dello scorso anno ha citato il governo in una causa di pubblico interesse davanti alla Corte suprema, chiedendo il bando della surrogazione commerciale di maternità. Nel presentare il proprio esposto, il legale ha dichiarato che la nazione è diventata virtualmente una «fabbrica di bambini», visto le innumerevoli coppie straniere che si recano in India in cerca di madri surrogate. Nello specifico, Wad punta il dito contro una notifica emessa nel 2013 dal governo centrale, che concedeva l’importazione di embrioni umani per la riproduzione artificiale. Rifiutando dunque di sostenere tale notifica, la Corte suprema — con la sua osservazione — ha esortato New Delhi a dare un quadro legale alla surrogazione commerciale, e di chiarire se una donna che dona il proprio ovulo in un caso di utero in affitto debba essere considerata l’unica madre, o se sia la surrogata che la madre biologica debbano essere ritenute “genitrici” del bambino. In ultima istanza, i giudici hanno chiesto di decidere se la surrogazione commerciale di maternità rappresenti uno sfruttamento fisico e psicologico per la surrogata e se la pratica sia in contrasto con la dignità femminile.

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Da qui, il secondo grande passo: il divieto di accedere all’utero in affitto anche alle coppie straniere. Al terzo si è giunti il 24 agosto, quando il governo centrale dell’India ha presentato il Surrogacy Regulation Bill 2016, che promette di dare finalmente una normativa alla pratica, rendendo illegale la surrogazione commerciale di maternità. Il disegno di legge verrà discusso dal Parlamento nella prossima sessione invernale, che si terrà nei mesi di novembre e dicembre. Qualora sia la Rajya Sabha (Camera alta o Consiglio degli Stati) che la Lok Sabha (Camera bassa o Casa del popolo) diano la loro approvazione, il provvedimento entrerà in vigore permettendo la sola surrogazione altruistica, ovvero quella che non prevede il pagamento di uno stipendio alla madre surrogata, ma solo il rimborso delle spese mediche e la copertura di un’assicurazione sanitaria. Secondo quanto previsto nel testo, potranno accedere al servizio solo le coppie eterosessuali con cittadinanza indiana, sposate da almeno cinque anni e dotate di un certificato medico che attesti la sterilità o l’impossibilità di portare avanti una gravidanza. Stranieri, single, conviventi, coppie omosessuali e coppie che hanno già dei figli (naturali o adottati) saranno esclusi. A rimarcare il tratto “altruistico” della pratica, la madre surrogata dovrà essere una parente stretta della coppia, dovrà aver già dato alla luce un figlio e potrà “prestare” il proprio utero solo una volta. In teoria, quante hanno già svolto il servizio di surrogate saranno escluse.
Tuttavia, trattandosi di un mercato cresciuto appunto senza controlli, né registri, risulta già chiaro che sarà impossibile stabilire con certezza se una donna è già stata o meno una surrogata: una scappatoia facile da sfruttare per il mercato nero. «Con questa legge», nota Carvalho, «il governo spera di fermare lo sfruttamento delle donne, un’intenzione che dovrebbe essere vista come positiva. “Altruismo” sembra essere una parola alla moda nell’industria della surrogazione e nei dibattiti televisivi nazionali. Le madri surrogate incinte, i loro visi coperti da sciarpe, parlano in televisione dei “servizi umani che stanno rendendo” aiutando coppie senza figli ad avere una famiglia, mettendo in luce il miglioramento della loro condizione economica, facendola apparire come una situazione vantaggiosa per tutte le parti in gioco».
I grandi sostenitori della surrogazione commerciale, come la dottoressa Nayana Patel, avvertono minacciosi che vietare la pratica, anziché regolamentarla, porterà solo guai. «Qualunque cosa si cerchi di proibire, accadrà clandestinamente. Le persone troveranno altri modi e mezzi, e questo potrebbe essere perfino peggiore», ha dichiarato la dottoressa. Per non parlare di come la messa al bando negherà a centinaia di povere donne «un’occasione unica nella vita» di migliorare economicamente la propria esistenza. Quel che è certo è il paradosso di permettere la surrogazione solo altruistica, e solo alle coppie indiane. All’Osservatore Romano padre Cedric Prakash, gesuita del Gujarat che per anni ha diretto il centro per i diritti umani, la giustizia e la pace Prashant, dice che «in realtà la surrogazione non è popolare fra gli indiani. La maggior parte non la vede di buon occhio. Alcune celebrità indiane, soprattutto star di Bollywood, hanno avuto un figlio tramite utero in affitto, cosa che ha in qualche modo legittimato questa industria».
Le poche coppie che optano per questo trattamento, conferma Carvalho, «lo fanno in segreto. Per la persona comune, c’è senz’altro uno stigma attaccato alla surrogazione, e questo obbliga le coppie che vi ricorrono a prendere lunghe ferie o semplicemente a trasferirsi altrove, e poi tornare con il bambino sostenendo che è stato concepito in modo naturale, mentre erano via».
Commerciale o altruistica che sia, nella surrogazione di maternità non può esserci una via d’uscita migliore, se in gioco vi sono la dignità umana del bambino, trattato alla stregua di un prodotto da commissionare, e della donna, ridotta a un mezzo, un oggetto, per via della sua capacità riproduttiva. «Mio marito beveva e si è ucciso poco prima che io partorissi il nostro secondo figlio. La sua famiglia mi ha buttata fuori di casa, e non avevo nessun altro a cui rivolgermi», racconta Sharmila, spiegando il perché della sua scelta. Non c’è vittoria, né emancipazione, né riscatto sociale in una donna costretta a fare figli non suoi per poter sopravvivere.


 

Redazione Papaboys (Fonte India, mecca dell’utero in affitto | Tempi.it/Osservatore Romano)

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