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38 anni fa il martirio di Oscar Romero: era il 24 marzo 1980

NEWS_92843(1) Ho incontrato e conosciuto mons. Oscar Romero, arcivescovo di San Salvador, il giovedì 10 maggio 1979, tre giorni dopo che l’arcivescovo era stato ricevuto per la prima volta in Udienza da Giovanni Paolo II. (2) L’appuntamento era ai piedi dell’obelisco di Piazza San Pietro e abbiamo passeggiato insieme quasi 50 minuti toccando nella nostra conversazione diversi argomenti, in particolare le tristi e ancora confuse notizie che arrivavano da El Salvador. Nel corso di una sfilata di oppositori alla dittatura pseudo legale del generale Carlos Humberto Romero, che era arrivata all’ingresso della Cattedrale per esprimere solidarietà con altri manifestanti che occupavano il tempio per chiedere la liberazione di alcuni dirigenti arrestati, la polizia del regime, l’8 maggio 1979, alle ore 12.45 portò a compimento un’orrenda strage sparando su qualsiasi cosa che si muoveva. Alla fine della giornata sul selciato e sulle scalinate della Cattedrale c’erano 25 morti.
Anche se nulla era ancora chiaro poiché i dispacci di agenzie erano piuttosto scarni a causa della censura imposta dal governo, mons. Romero, grande conoscitore della situazione, commentò con grande tristezza: “Mi auguro che non sia accaduto niente di irreparabile, ma temo però il peggio”. Dopo pochi giorni, purtroppo, le parole dell’arcivescovo si sono rivelate veritiere. Infatti, era accaduto il peggio: ciò che la storia oggi ricorda come “La Masacre de la Catedral”.
Il nostro incontro era stato possibile grazie alla mia amicizia con mons. Arturo Rivera y Damas (successore di mons. Romero dopo la sua uccisione il 24 marzo 1980), amico e collaboratore dell’arcivescovo. Mons. Rivera y Damas anni addietro era stato vescovo ausiliare dell’arcidiocesi di San Salvador e in questo periodo aveva stretto rapporti di amicizia con diversi vescovi  e sacerdoti cileni che io conoscevo molto bene. In questo intreccio di rapporti e amicizia, 36 anni fa, è nata l’idea del nostro incontro a Roma soprattutto per parlare sul mio Paese avvilito da oltre cinque anni da un’altra orrenda dittatura. In realtà, nel nostro incontro si parlò poco o per nulla a riguardo della situazione cilena. Mons. Romero aveva un grande bisogno di essere aggiornato su quanto stava succedendo nel suo Paese e nella sua diocesi e ciò fece scivolare la conversazione sulla tragedia salvadoregna, facendo scomparire l’altra, quella cilena.
Quel pomeriggio inoltrato mons. Romero, amabile e mite, si mostrava piuttosto nervoso e nell’intenso gesticolare delle sue mani, così come nelle contrazioni del suo volto, si potevano “leggere” segni di angoscia e ansietà, quasi – direi – di dolore fisico. Parlava in fretta, cosa non abituale secondo quanto ho potuto verificare in seguito, ascoltando svariate registrazioni delle sue omelie. Era anche preoccupato per il suo viaggio del giorno dopo, 11 marzo: si sarebbe dovuto recare in Spagna da dove poi sarebbe partito alla volta del suo Paese, dove certamente avrebbe trovato una situazione peggiore a quella esistente prima di viaggiare a Roma, e più critica anche di quella che aveva illustrato ampiamente a Papa Giovanni Paolo II 24 ore prima della strage della Cattedrale.
In qualche modo era anche sfinito per la sua lunga attesa a Roma, protrattasi perché aspettava un incontro con il Papa, giorni “per molto me costosi … La mia, sa, è una diocesi povera e dobbiamo usare il denaro con grande responsabilità”, fu il suo commento. Mons. Romero aveva l’impressione di non essere ben compreso in alcuni uffici della Curia e pensava che spesso si dava più ascolto, credibilità e credito, a voci nemiche della chiesa salvadoregna o a ciò che con parole di Papa Francesco oggi possiamo chiamare “chiacchiere”. Infatti, per molti anni, anche dopo il suo martirio mons. Romero è stato una vittima del “terrorismo delle chiacchiere” che in alcuni momenti hanno avuto l’effetto conosciuto: ostacolare o ritardare il processo di beatificazione. Ricordo che mons. Romero riteneva che queste “chiacchiere” fossero “comprensibili in una certa misura” poiché, spiegò, la “situazione interna del Paese è molto confusa e avvelenata e tra le tecniche che si utilizzano per disinformare ci sono le falsità, le calunnie, i rumori infondati […] Sono piccole valanghe lanciate sulla stampa governativa, apparentemente in modo inoffensivo, che altri poi ingigantiscono come verità indiscusse”, aggiunse amareggiato. Spesso era lui la vittima principale e privilegiata del regime e dei partiti che lo sostenevano, e che fecero sempre di tutto per screditare l’arcivescovo.
Sapevo che in Vaticano gli era stato suggerito di tentare di migliorare i rapporti con il governo e perciò in quell’incontro ho chiesto a mons. Romero: se sarebbe stato possibile migliorare questi rapporti. La sua risposta – ricordo con chiarezza – è stata disarmante: “Tutto è possibile e si deve provare sempre, ma ritengo che la nostra sincerità e i buoni propositi non abbiano il riscontro desiderato. Da parte delle autorità riceviamo come risposta alle nostre richieste solo silenzio, accuse e a volte offese. Nel governo, e nella politica salvadoregna, la maggioranza considera la chiesa un’istituzione nemica e infiltrata da persone nemiche del Paese, della democrazia e della convivenza pacifica”. Per l’arcivescovo una “terribile evidenza” di tale astio, al limite dell’odio, era l’uccisione di diversi sacerdoti e laici impegnati nella pastorale, l’ultimo dei quali era padre Octavio Ortiz, ucciso il 20 gennaio 1979 insieme ad altri quattro giovani.




Nel suo cuore erano sempre vivi i nomi di altri confratelli uccisi cominciando da padre Rutilio Grande, trucidato il 12 marzo 1977, insieme ad altre due persone (Manuel Solorzano, 72 anni e Nelson Rutilio Lemus, 16 anni). Negli anni successivi mons. Romero si trovò a piangere l’uccisione di altri sacerdoti (maggio 1977, p. Alfonso Navarro Oviedo;  gennaio 1978, padre Neto Barrera). Dopo il suo incontro con il Santo Padre, al suo rientro, dovette piangere altri due fratelli: padre Rafael Palacios (giugno 1979) e padre Napoleon Alirio Macias (agosto 1979).
Ricordo di aver posto a mons. Romero questa questione: “Di lei, al momento della sua nomina (1970, vescovo ausiliare di San Salvador)(3), si disse che era piuttosto conservatore, di “destra”. Ora invece alcuni l’accusano addirittura di essere comunista. Perché monsignore?”. A questo punto l’arcivescovo si fermò e guardandomi con determinazione disse: “No! Non mi sono mai interessato di politica. Non sono mai stato di destra o di sinistra. Sono concetti di una categoria che non conosco e non capisco, la politica. Dal 1930, dai tempi del Seminario di San Miguel (Romero aveva 13 anni), ho sempre pensato a Cristo e alla sua Chiesa come i miei unici punti di riferimento. Essere stato considerato una volta di destra e poi di sinistra dimostra che sono gli altri che mi vogliono utilizzare e non cosa penso e sono realmente io”.
Poi per alcuni minuti mi fece una riflessioni molto lucida. “Il problema che affronta la Chiesa latinoamericana, e forse ciò accade in altre regioni, è la lettura politico-ideologica che del suo essere e della sua missione si fa dall’esterno. Sovente settori della società guardano la missione della Chiesa con paraocchi ideologici nel tentativo di usarla e quindi, a seconda i loro bisogni, affibbiano a essa etichette di convenienza. Se non riescono ad addomesticarla provano a distruggerla”. E questo suo pensiero lo abbiamo trovato in forma ricorrente nelle registrazioni che due anni prima della sua morte fece l’arcivescovo ogni sera e che furono pubblicate integralmente nel 1990. (4)
Ricordo che nella cornice di queste sue riflessioni mons. Romero fece numerose osservazioni sui diritti umani e sulla dignità della persona. In particolare ricordò alcuni racconti di salvadoregni torturati così come di famiglie distrutte, e tra queste vi erano persone a lui molto vicine da anni. Ricordò anche, con voce tradita dall’emozione, alcuni casi di bambini torturati per obbligarli a dare notizie sui membri della famiglia ricercati dalla polizia politica. In alcuni momenti mons. Romero sottolineò anche il dramma della povertà, anzi, della miseria di tanti suoi concittadini e quindi fece riferimento ad alcuni Episcopati europei e nordamericani che fornivano un aiuto solidale alle opere di promozione umana della sua arcidiocesi. In questo contesto pronunciò una frase il cui significato profondo l’ho compreso alcuni anni più tardi: “Sa, caro amico, la povertà in un certo senso è il male minore poiché si può essere povero nella dignità. Con la tortura e la repressione, invece, questa dignità scompare e la persona viene avvilita al punto di farla diventare un oggetto. E’ una cosa che poi non è facile superare. Queste ferite sono peggiori di quelle della fame o della sofferenza fisica”.
Dopo esserci comunicati i rispettivi indirizzi postali e i nostri numeri di telefoni ci separammo con una affettuosa stretta di mano e un timido abbraccio. In silenzio, per sempre. Si allontanò a testa china verso via della Conciliazione, piccolo, quasi minuscolo, sempre più sfumato … Il nostro è stato un incontro doloroso, oggi direi premonitore. Ricordo di aver guardato a lungo il crocifisso che sormonta l’obelisco, certo di aver parlato con un sacerdote esemplare e un grande pastore … ma senza capire che era un uomo santo.
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Note.
(1) La narrazione di questi ricordi risalenti a molti anni di distanza degli eventi raccontati è stata possibile grazie ad un caro amico salvadoregno al quale dieci giorni dopo il mio incontro con mons. Romero scrissi una lettera raccontandogli una parte importante della conversazione. Ora questo amico, ormai residente da anni negli USA, a mia richiesta mi ha rimandato indietro una copia della mia lettera del 1979, che io non conservavo. A lui la mia sincera gratitudine e affetto, così come alla sua famiglia.
(2) Mons. Romero incontrò Papa Wojtyla una seconda e ultima volta, il 30 gennaio 1980, tre mesi prima del suo assassinio.
(3) Mons. Romero il 25 aprile 1970 venne nominato vescovo ausiliare di San Salvador da Papa Paolo VI che poi lo nominò il 15 ottobre 1974 vescovo di Santiago de Maria. Infine,  il 3 febbraio 1977, sempre Papa Montini II lo nominò arcivescovo di San Salvador.




Mons. Romero incontrò Paolo VI per l’ultima volta il 21 giugno del 1978, un mese e mezzo prima della morte del Pontefice. Monsignor Romero, sul suo diario, ricordò quell’incontro con particolare affetto. Il Papa con lui fu “cordiale, generoso, l’emozione di quel momento non mi permette di ricordare parola per parola”. Papa Montini gli disse: “Comprendo il suo difficile lavoro. È un lavoro che può non essere compreso, necessita di molta forza e pazienza. Anche se so che non tutti la pensano come lei nel suo Paese, proceda con coraggio, con pazienza, con forza, con speranza”. “Mi ha promesso che pregherà per me e per la mia diocesi. E mi ha chiesto che faccia ogni sforzo per l’unità”. L’anno seguente mons. Romero tornò a Roma e visitò la Basilica Vaticana e pregò davanti alla tomba di Montini. “Mi ha impressionato, più di tutte le altre, per la sua semplicità”, scrisse sempre sul suo diario. “Ho sentito un’emozione speciale nel pregare sulla tomba di Paolo VI, di cui sono andato ricordando tante cose dei suoi dialoghi con me, durante le visite che ho compiuto ed avendo la fortuna di essere ammesso in sua presenza privata”.
(4) A dieci anni della morte di O. Romero, l’arcidiocesi di San Salvador pubblicò senza commenti la trascrizioni di questi nastri.
Dall’Archivio / Servizio di Luis Badilla per la Redazione del blog ‘Il Sismografo’

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