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La storia di Padre Pasquale Pirozzi, missionario in cammino verso la santità

Il 3 marzo dell’anno santo del 1950 il P. Pasquale Pirozzi muore a Buenos Aires. È dall’inizio dell’anno che il suo volto appare stanco, il passo lento e la voce flebile. A chi glielo fa notare risponde che è niente e continua la sua attività pastorale. Il 26 febbraio, durante la cena, emette un acuto grido e tutti, guardandolo, notano sul volto una smorfia di dolore e che si stringe la mani ai fianchi.

Un fortissimo dolore l’aveva colpito ai reni. Chiamano subito il medico, che ordina l’immediato ricovero nel vicino ospedale Durand, ma ogni rimedio risulta inefficace per alleviargli il dolore. Trascorre una notte dolorosissima. Si dimena sul letto senza trovare la posizione, che gli dia un poco di sollievo. L’indomani lo trasferiscono all’Ospedale Italiano, dove la sua forza d’animo nel sopportare il dolore, che spesso diventa atroce, meraviglia tutti. Dalle sue labbra esce solo una lenta preghiera.

Il primo marzo i dolori scompaiono. Si accende la speranza, ma, purtroppo, il medico spiega che “non soffre più, perché tutta la zona renale si è atrofizzata”. Sfinito nel corpo, ma pronto nello spirito, non smette di recitare il santo rosario, aiutato da qualche confratello. Sono le ore 18 del 3 marzo, è il primo venerdì del mese. In chiesa si celebrano le quarantore, quando quegli occhi che non si erano mai stancati di ammirare Gesù nel sacramento, quei piedi, che avevano percorso tanti chilometri per portare la comunione ai malati ed anziani e qualche aiuto ai poveri e quella voce, che con la sua soavità era risuonato tante volte nella chiesa, si fermano.

Il “padre santo” è partito per il cielo, che ad una sua figlia spirituale aveva descritto come “il luogo di pace e tranquillità”.

Alla notizia della morte, unanime è la testimonianza: “Era un sacerdote santo”.

Il P. Pasquale Pirozzi nasce a Pomigliano d’Arco (Napoli) il 12 aprile 1886 da Felice e Rosa Pirozzi. Il giorno dopo nella chiesa di S. Felice riceva il battesimo. Pasqualino è l’ultimo figlio. Prima sono nate tre sorelle: Filomena, Carmela e Maria. Il papà fa il carradore. Un lavoro, quello di aggiustare i carri, che non dà neanche il necessario per sopravvivere. Quando muore il papà, il 7 settembre 1914, la responsabilità ricade sulla mamma, che probabilmente cerca di guadagnare qualcosa tessendo la felpa. Delle sorelle la sola Maria si sposa, ma non ha figli. Le altre due, dopo la morte della mamma, l’11 febbraio 1927, vivono della carità della gente, che, per pietà le aiuta, commissionando qualche lavoro di ricamo o di rattoppo.

Un giorno il medico di famiglia, visitando Pasqualino, gli chiede: “Da grande, quali studi vuoi fare?” “Quelli per diventare sacerdote”, risponde. Vicino alla sua casa abita la famiglia Terracciano, che ha il figlio Giovanni tra i Missionari dei Sacri Cuori. Pasqualino, ogni qualvolta che questi la visita, lo nota e l’ammira. Un giorno gli rivela che vuole essere missionario come lui ed il P. Giovanni Terracciano ne parla ai superiori, che fanno difficoltà, siccome è l’unico figlio maschio. Quando decidono di accoglierlo, siccome la famiglia è poverissima, deve intervenire lo zio Antonio per pagare la retta. Così, il 19 aprile del 1903, all´età di 17 anni, Pasqualino entra nella comunità di Secondigliano, come postulante.

Timido e silenzioso, si distingue per l’amore allo studio ed alla pietà ed i superiori, dopo meno di un mese, l’ammettono al noviziato il 1° maggio dello stesso anno.




Il maestro di noviziato, il P. Grampone Francesco, per aiutarlo a superare la naturale timidezza qualche volta lo rimprovera e lo umilia anche pubblicamente ed egli, tutt’altro che superficiale, annota “non mancano le lotte spirituali, le tentazioni contro la vocazione e le umiliazioni da parte del P. Maestro”.

Il 1° maggio 1904 emette la professione religiosa e subito s’impegna con tenace volontà a colmare le lacune scolastiche, per la scarsa preparazione ricevuta al paese.

La condotta, invece, è esemplare: “Lo ammiravo, riferisce un testimone, con un sentimento di infinito rispetto e simpatia per il bene che si diceva di lui e per il suo comportamento affabile, modesto e raccolto, specialmente in cappella, durante la preghiera comune”.

Il 24 maggio del 1906 emette la professione perpetua ed il 5 giugno del 1909 è ordinato sacerdote nella Chiesa della Casa Madre in Secondigliano da S. Ecc. Mons. Finoia.

Viene, subito, incaricato della formazione dei giovani religiosi ed il P. Ruggiero, nella biografia che scrive di lui, ricorda: “Serio, con gli occhi bassi mi riprese con tanta dolcezza e carità che mi convinse a cambiare atteggiamento”.

Sogna di partire missionario per aiutare gli emigranti italiani che vanno in Argentina. Il 22 febbraio 1910 insieme a due confratelli scrive al P. Generale: “Non tema per noi, perché siamo pronti a tutto per amore di Gesù. L’amore ardentissimo dei Sacri Cuori ci proteggerà in tutte le battaglie ed il nostro Venerabile Padre anch’egli dal cielo con la sua preghiera non cesserà di implorare le grazie che ci saranno necessarie. Non tema per noi e ci conceda la sospirata licenza”.

Il P. Pennino, rettore della comunità della casa di Afragola (Napoli), che ha conosciuto il P. Pirozzi durante una breve permanenza in essa, scrive al P. Generale: “Oh! quanto sarebbe utile il P. Pirozzi in questa casa”. Nel gennaio del 1913 il P. Pasquale vi è destinato ed, anche se la sua permanenza dura solo un anno suscita ammirazione e rammarico quando deve partire per Buenos Aires.

Il P. Pennino non si rassegna e scrive di nuovo: “Il solo P. Pirozzi ha lavorato come sempre per quattro ed intanto fra non molto dovrò perderlo! È proprio necessario che vada in America? Vi dico sinceramente che non riesco a rassegnarmi a tale perdita”.

Anche il canonico Sibilio, un sacerdote diocesano che vive in comunità ed ha donato la sua casa, intercede: “Egli con le sue buone qualità, con la sua modestia, con l’assiduo servizio alla nostra chiesa, in ogni portamento si è acquistato la stima ed il rispetto di tutti. Io stesso ho tanto stima per il P. Pirozzi che perderlo mi dispiacerebbe”. Ma il P. Pasquale venuto a conoscenza dei tentativi per distogliere i superiori dal proposito di inviarlo in Argentina, scrive al P. Generale: “Mi sembra che il P. Rettore vada cercando qualche scusa per non farmi partire, vi prego di non tenerne conto. Eccomi, faccia di me ciò che vuole, sono pronto a qualunque costo a fare la volontà di Dio”.

Il Missionario

Il 7 marzo 1914 la nave “Alice”, ancorata nel porto di Napoli, attende gli emigranti da trasportare oltre oceano, in cerca di una migliore fortuna.

Il P. Vincenzo Pennino, che con un gruppetto di amici ha accompagnato il P. Pasquale, conoscendo la sua timidezza, lo raccomanda a qualche marinaio, lo fornisce di uova, cognac, nocino, cioccolata, taralli inzuccherati e gli ripete: “Padre, non faccia scrupolo di chiedere, se ha bisogno di qualcosa”. Si salutano con un forte abbraccio ed il P. Pasquale lo ringrazia con gli occhi più che con le parole.

Il P. Pennino attenderebbe la partenza della nave ancora per un saluto, insieme ai tanti familiari, che sventolano i fazzoletti verso i loro cari dalla banchina, se il tram, che sta per partire, non fosse l’ultimo per ritornare ad Afragola.

Quando la nave si stacca dal porto, davanti ai passeggeri si spiega lentamente il meraviglioso panorama della collina di Napoli, reso ancora più suggestivo dalle tante luci accese, ma il P. Pirozzi non può goderselo, perché subito incomincia a soffrire il mal di mare, che l’accompagnerà fino al passaggio dello stretto di Gibilterra, da dove scrive al P. Grampone: “Per la gloria di Dio ed il bene della Congregazione bisogna fare qualunque sacrificio”.

Una coppia di sposi di Napoli, notate la sua riservatezza e sofferenza, si prende cura di lui.

L’unico rammarico durante il viaggio è di non poter celebrare ogni giorno la santa messa.

Il 29 marzo, dopo 22 giorni di navigazione, la nave attracca nel porto di Buenos Aires, dove lo attendono i Padri Terracciano e Di Silvestro, per dargli il benvenuto nella terra, dove il primo è giunto nel 1912.

L’incontro con il P. Terracciano, il primo missionario dei Sacri Cuori ad arrivare in Argentina, è commovente, anche perché il Padre gli ricorda gli inizi della sua vocazione.

I Padri risiedono dal 2 settembre 1913 nei locali del collegio “Benito Nazar”, gestito da un gruppo di Dame dell’Opera della Preservazione della Fede, il quale “è veramente una magnificenza e, forse, senza esagerare, è uno dei primi di Buenos Aires”. I missionari ne curano la parte spirituale: il catechismo ogni giorno agli alunni, le confessioni e la preparazione alla prima comunione.

Il P. Pasquale si mette di buon animo ad imparare la lingua e, dopo qualche mese, già aiuta nel ministero pastorale.

Intanto l’Italia il 26 aprile 1915 firma il “patto di Londra”, con il quale s’impegna ad entrare in guerra a fianco dell’Inghilterra, Francia e Russia. Il che avviene il 24 maggio contro l’Austria.

Il P. Pasquale è chiamato alle armi, ma l’ordine gli arriva in ritardo, perché è all’estero. Il 2 dicembre, insieme al P. Generale, che si trova a Buenos Aires per la visita canonica, torna in Italia, dove arriva la vigilia di Natale.

Il 3 gennaio 1916 è assegnato all’ospedale militare “Vittorio da Feltre”. Le istruzioni interne, le esercitazioni esterne e il servizio di guardia rendono la vita molto dura, per cui, quando dopo un mese è trasferito all’ospedale militare di riserva “S. Elena”, tira un sospiro di sollievo. Qui la vita è completamente differente: ha tempo per leggere, studiare e pregare. L’ospedale è gestito da suore francesi, le “Missionarie Francescane”. Partecipa con loro alle pratiche di pietà e la superiora si offre per insegnargli la lingua francese. Dopo un mese legge in francese le preghiere e le novene e, mentre continua ad esercitarsi, predica alle suore, ascolta le confessioni e si dedica con carità e pazienza nell’assistere e confortare i soldati e nell’amministrare loro i sacramenti.

Il 18 gennaio 1919 si trova all’ospedale militare di piazza Dante, a Napoli. Non si conosce la malattia, siccome si parla solo di febbre. Il 20 marzo è inviato a casa con la motivazione “di aver avuto buona condotta e di aver servito con fedeltà ed onore la Patria”.

Prima di ritornare in Argentina partecipa ad un corso di esercizi spirituali a Secondigliano e, dopo un viaggio difficile non solo per il male di mare, ma anche per le condizioni igieniche, siccome le cabine sono piene di cimici, il 28 agosto è di nuovo a Buenos Aires. Ringrazia il P. Generale, con il quale tiene una continua, sincera e rispettosa corrispondenza, e gli augura che “i Sacri Cuori vogliano ricolmarla della piena gioia di vedere la nostra amata Congregazione ingrandirsi di giorno in giorno fino a vederla nel più bello e completo sviluppo e sparsa in tutto il mondo”.

Durante la sua assenza la Chiesa argentina ha vissuto momenti difficili: “Negli ultimi giorni, scrive il P. Terracciano, siamo stati in pericolo di vita. Sono stati giorni di preoccupazione e di pericolo. Sono state bruciate le chiese ed alcuni collegi ed oltraggiati i sacerdoti. E sembra che non sia finito. Corrono voci che si ripeterà la scena, perché gli scioperanti, che hanno causato la rivoluzione non ancora si sono accordati. La Madonna ci aiuti”.

Nel 1920, la direzione del collegio mette a disposizione una stanza per la cappella ed il P. Pasquale scrive al P. Generale: “Abbiamo la somma fortuna di avere con noi il SS. Sacramento” e gli esprime la sua gioia e speranza per l’apertura della Scuola Apostolica in Secondigliano: “Che l’alunnato progredisca sempre di giorno in giorno di bene in meglio, di meglio in ottimo con l’aiuto di Dio, della Madonna e del Venerabile Fondatore e dia quanto prima i suoi ubertosi frutti per glorificare Dio e consolare la nostra Congregazione.”

Cambiata l’amministrazione del collegio “Benito Nazar”, i padri preferiscono andare ad abitare in un appartamento, di quattro stanze, preso in affitto, in via Pringles. La stanza più grande si adibisce a cappella e vi si pone la statua della Madonna Addolorata, divenuta la compagna dei Missionari dei Sacri Cuori. La signora Maria Luisa Cullen de Llobet, intanto, per lo zelo dei Padri dona il terreno per la costruzione della Chiesa in onore della Madonna Addolorata, la cui statua nell’ottobre 1918 è giunta dall’Italia e nel 1922 viene acquistato il terreno attiguo per costruirvi anche la casa religiosa.

Il P. Pasquale, addolorato per il ritorno in Italia di qualche confratello, ne parla con umiltà al P. Generale: “Rimanendo in due si può fare molto poco, certamente non ci faremo bella figura con la Curia e con gli altri Ordini religiosi”, ma subito aggiunge: “ Non per questo ci vorremo perdere di coraggio, anzi maggiormente sarà e dovrà essere la nostra confidenza in Dio, sicuri che se confidiamo in Lui e solo in Lui, saremo certamente consolati, ottenendo quanto è necessario per la sua gloria ed il bene della Congregazione”.

La stanza adibita a cappella diventa sempre più piccola per accogliere i fedeli, che numerosi accorrono per venerare la Madonna Addolorata, attratti dal dolce volto, che dona pace e speranza nel duro camminare di questo mondo.

Il giorno 20 novembre 1922 iniziano i lavori per la costruzione di un “salone”, da adibire momentaneamente a cappella, di 30 metri per 10, confidando nella Provvidenza, perché nella cassa vi sono solo pochi soldi. E la Provvidenza non delude mai. Proprio in quei giorni due facoltose signore s’impegnano a trovare i fondi per la costruzione. E non manca qualche fatto che lascia pensare.

Un giorno il P. Terracciano deve pagare al costruttore 5000 pesi argentini, ma non ne ha neanche uno. Bussa inutilmente alla porta dei benefattori e, poi, mette nelle mani della Madonna Addolorata la nota da pagare. Passano due giorni e si presenta una signora con l’offerta di 5000 pesi.

Il 2 giugno 1923 la nuova cappella è benedetta da Mons. Juan Beda Cardinale, Nunzio Apostolico in Argentina, con la partecipazione della popolazione. Il giorno seguente è festa grande. Nella mattinata l’incaricato della Curia diocesana legge la bolla dell’erezione canonica della parrocchia ed il P. Generale, P. Francesco Grampone, venuto apposta dall’Italia, celebra una solenne messa di ringraziamento. Nel pomeriggio la statua della Madonna Addolorata è portata solennemente dall’oratorio privato di via Pringles alla nuova cappella e posta su un trono di marmo.

Dopo un anno il P. Pasquale scrive al P. Generale: “La parrocchia, grazie a Dio, sembra che vada a gonfie vele. Siano date grazie a Dio ed alla Madonna Addolorata, perché tutto questo non è opera nostra, che non lo meritiamo, ma unicamente della bontà e misericordia di Dio. Con ciò non voglio negare la nostra cooperazione, ma a che vale l’opera nostra se non è aiutata dal soccorso divino?”

La storia di Dio è fatta anche di mediazioni umane, dalle quali può dipendere la buona riuscita dell’opera ed il P. Pasquale è un docile strumento ed un instancabile lavoratore nella vigna del buon Dio.

La sua giornata ha un ritmo mozzafiato. Alle 4, 30 del mattino è in chiesa per la preghiera personale davanti al SS. Sacramento, per preparare l’occorrente per la celebrazione e per spolverare accuratamente i banchi. Alle 5,30 esce per portare la comunione alle anziane di una casa di riposo ed ai malati nelle case. Cammina a capo scoperto, anche quando fa freddo, con gli occhi bassi ed una mano sul petto. Alcuni passanti lo guardano meravigliati, altri si fanno il segno della croce, qualcuno non manca di burlarsi di lui: “Questo prete è proprio un pazzo”. Alle 6,30 ritorna per la preghiera di comunità, quindi attende in sacrestia alle persone. Celebra ordinariamente l’ultima messa, eccetto che non debba suonare e cantare, dotato, com’è, di buono udito musicale e di una bellissima voce baritonale. Nel pomeriggio, quando fa caldo, si concede un poco di riposo appoggiando il capo sulla scrivania della stanza o della sacrestia, quindi sosta davanti al SS. Sacramento, sempre in ginocchio, prima di riprendere la sua attività´. Alle 16 è di nuovo sulla strada per andare a visitare qualche malato o portare un poco di provvidenza a qualche famiglia bisognosa.

Ritorna puntuale per la preghiera vespertina, confuso tra la gente, quando non deve suonare e cantare. Di sera, dopo la cena, fa l’una della notte davanti al Santissimo Sacramento.

Il prete dei malati e dei poveri

Il P. Gaglione Gabriele, suo compagno per tanti anni, testimonia: “Il P. Pirozzi è stato il sacerdote che finora in parrocchia ha realizzato il maggior numero di visite agli ammalati, portando loro la S. Comunione” e il P. Ruggiero aggiunge: “Appena sapeva che in qualche famiglia o all’ospedale vi fosse un infermo grave, che da anni non si confessava, non si dava pace. Subito andava a fargli una visita, si interessava della sua salute e gli prometteva una preghiera, perché il Signore lo guarisse. Alla seconda o terza visita l’infermo si confessava e riceveva la S. Comunione”.

Per non far mancare i conforti religiosi ai malati istituisce a Capitan Bermudez “L’opera eucaristica per gli infermi” con lo scopo di visitarli e preparare la visita del sacerdote. La signorina Ignazia Luzurriaga, socia dell’associazione, racconta che il Padre Pasquale era sempre pronto ad accorrere al letto dei malati, senza curarsi del caldo, della pioggia, del freddo e del fango. C’era un vecchio, ch’ella aveva cercato di convincere con tutte le buone maniere, ma inutilmente, a ricevere la visita del sacerdote. Ne parlò al P. Pirozzi, che subito l´andò a visitare. Il vecchio si mostrò quasi indignato ed evitò finanche di guardarlo, ma il Padre si chinò su di lui, l’abbracciò affettuosamente e gli sussurrò alcune parole, che gli toccarono talmente il cuore che chiese di confessarsi e di ricevere la comunione.

La fila dei poveri e disoccupati è continua. Ognuno cerca un aiuto o una raccomandazione ed egli li ascolta con attenzione, dolore ed interessamento, senza mai perdere la pazienza.

C’ è anche chi approfitta della sua bontà, allora interviene il P. Rettore per liberarlo.

Siccome il denaro per fare la carità non gli basta mai, ricorre a qualche benefattore o allo stesso Rettore, che gli fa presente: “Padre, se volessi accontentare tutte le vostre richieste, non basterebbero le entrate della parrocchia”. Alla confraternita di S. Vincenzo chiede la roba da distribuire ai poveri.

I padri di famiglia disoccupati lo commuovono ed egli va a perorare presso le aziende la loro causa.

Nella sua vita ci sono episodi, che sono veri fioretti.

Un giorno bussa alla porta della parrocchia un giovane sporco, vestito di pochi cenci e con pidocchi. Egli l’accoglie, gli dà della biancheria e la possibilità di un bagno caldo, lo sfama e chiede ad un amico di tagliargli i capelli. La mattina seguente l’ospite scompare senza lasciare tracce, ma prima passa per la chiesa e svuota le cassette delle offerte. Il sacrestano chiama Padre Pasquale e gli suggerisce di denunciarlo, ma egli risponde: “Lasciamo stare, se ha preso il denaro è perché ne aveva bisogno”.

Una mattina nota in fondo alla chiesa un ragazzo, orfano di mamma, tutto rannicchiato ed infreddolito. Gli s’avvicina e chiede: “Giovannino, fa freddo questa mattina?” “Un poco”, risponde il ragazzo. Va in sacrestia e, dopo qualche minuto, ritorna con un paio di calze di lana. Terminata la celebrazione una donna gli fa notare: “Padre, con questo freddo è senza calze?” “Non ti preoccupare. C’è qualcuno che ha più freddo di me”.

Un giorno a Capitan Bermudez due signore di Buenos Aires chiedono ad un vecchio se conosce P. Pirozzi e questi risponde: “E chi non lo conosce? Vedete questa camicia? Me l’ha dato lui”. E persone che vanno in giro con la sua biancheria ne sono parecchie.

I santi nel fare la carità, non chiedono spiegazioni nè indagano, perché nell’altro vedono Cristo, che ha detto: “In verità vi dico: tutto quello che avete fatto a uno dei più piccoli di questi miei fratelli, l’avete fatto a me”. (Mt.25,40) Vuole che nessun povero vada via dalla casa religiosa senza ricevere qualche cosa. “Se chiede il pane, raccomanda, dagli il pane. Se chiede cibo, dagli il cibo e se chiede denaro, dagli denaro”. Un giorno l’incaricato gli fa osservare che molte volte i poveri chiedono i soldi per comprarsi il vino ed egli: “Don Emilio, a lei piace il vino?” “Si, Padre”. “Allora che lo beva anche il povero se lo desidera”.

Primo parroco di Capitan Bermudez

All’inizio dell’anno 1937, i padri Pellegrino e Longo vanno ad ascoltare una conferenza sull’Azione Cattolica di Mons. Caggiano, Vescovo di Rosario (Provincia de Santa Fè). Quando si avvicinano per salutarlo, questi, saputo che sono di una congregazione religiosa italiana, gli propone di aprire una comunità nella sua diocesi, per il servizio agli immigrati italiani.

I due sacerdoti promettono di parlarne al nuovo Superiore Generale, P. Bartolmeo Mazza, succeduto al P. Grampone Francesco, morto il 10 gennaio 1936.



Il P. Pasquale e´ incaricato di prendere contatti con il Vescovo ed il 22 marzo si reca con il P. Pellegrino Girolamo a Rosario per incontrarlo e verificare la possibilità dell’apertura di una comunità religiosa. Al ritorno informa il Superiore, che da Roma preme per il desiderio di diffondere l’Istituto. Il Vescovo, prima entusiasta, ora tace ed il Padre Dirozzi si consulta con il Beato don Orione, che gli dice: “Non dubiti, padre, mons. Raggiano risponderà”. Difatti, dopo poco gli arriva l’invito a recarsi a Rosario, ma siccome è malato, lo sostituiscono il 27 luglio il P. Rocco Logo ed il P. Pellegrino, che visitano vari luoghi proposti dal Vescovo e soffermano la loro attenzione su Juan Ortiz, oggi Capitan Bermudez.

Juan Ortiz è un borgo lontano da Rosario circa 11 Km. C’è una chiesetta, costruita nel 1935, ma mancante di sacerdote e di una casa per ospitarlo. Intorno c’è qualche abitazione. Poco lontano due fabbriche, una d’armi con duemila operai e la Cellulosa con mille. Il Vescovo ha intenzione di costruirvi il seminario arcivescovile.

I padri si consultano tra loro prima di scrivere al P. Generale: “Non vi sono difficoltà ad accettare la chiesa di Villa Cassini, essendo, a parere di tutti, una buona occasione. Anzi si crede essere di vitale importanza per l’avvenire dell’Istituto, essendo difficile avere vocazioni in Buenos Aires, mentre la nuova casa pare un campo adatto per vocazioni, per la formazione religiosa dei nuovi soggetti e per un vastissimo apostolato.”

Il P. Generale, arrivato l’11 marzo 1938 con quattro giovani sacerdoti, Napolano Vincenzo, Guida Salvatore, Tuccillo Giacinto e Salerno Francesco, apre la nuova casa e vi destina il P. Pirozzi Pasquale, come rettore, ed i padri Napolano Vincenzo e Giuseppe Calzone, che giungono il 13 giugno 1938 a Juan Ortiz, giorno onomastico del Vescovo, che paternamente li invita a mensa.

La chiesa, dedicata a San Rocco, è sprovvista di tutto. Non è neanche parrocchia. Gli inizi sono tanto difficili che il P. Gaglione, biografo del P. Pirozzi, commenta: “L’inizio delle nostre case è sempre segnato dalla povertà, ma i protagonisti hanno mostrato sempre grande fede in Dio e straordinario fervore nel servire i poveri e gli umili, bussando alla porta dei ricchi, per dare ai poveri. A Juan Ortiz si ripete quanto capitato rispettivamente ai Padri Speranza e Terracciano a Roma ed a Buenos Aires”.

I sacerdoti alloggiano in una casa al Bulevar San Lorenzo, data in fitto dalla signor Moldon. Un amico del P. Pasquale, recatosi a visitarlo, perché ammalato, e constatato lo stato malsano dell’abitazione, gli suggerisce di trovarne un’altra, ²ma il padre, calmo e sereno, rispose che la loro sofferenza non è niente a confronto di quella patita da Gesù Cristo”.

I padri per andare alla chiesa devono percorrere a piedi un chilometro, una distanza resa ancora più difficile dall’impraticabilità della strada di terra battuta, che durante l’inverno diventa un vero pantano. Per il P. Pasquale, poi, il tragitto è ancora più faticoso per un dolore al ginocchio che gli impedisce anche di genuflettere.

In casa manca l’acqua, che vanno a prendere alla fontana pubblica o in qualche famiglia. Per preparare il povero pasto si servono di un fornellino. La casa di Juan Ortiz, più che povera, è “la casa della perfetta miseria”. Un giorno tre “donnette”, conoscendo la necessità dei sacerdoti si presentano, dicendo: “Siamo a vostra disposizione, una per ciascuno ed anche di notte”. Il P. Pasquale dà loro quanto denaro tiene in casa e le prega di andar via. In riparazione dei loro peccati passa la notte in preghiera ed il giorno digiuna. Fino a quando resta a Juan Ortiz non manca mai di mandare un poco di provvidenza alle poverette. I Padri dimorano in quella casa fino a quando l’ingegnere Silvio Gagliardi, direttore della Cellulosa argentina, ne fa costruire una per loro, vicino alla chiesa, avendo ricevuto da una zia la somma di 25.000 pesos per un’opera parrocchiale. Nella nuova casa il P. Pasquale sceglie per sé la stanza più scomoda.

La situazione, tuttavia, è sempre difficile. I pochi soldi ricevuti prima della partenza finiscono presto e per avere qualche offerta devono andare alla cattedrale di Rosario per la celebrazione della santa messa. La gente si mostra sospettosa, fredda ed indifferente, restando a guardare.

Qualche compagno del P. Pasquale non resiste e lo fa presente al Superiore, che pensa di richiamarli a Buenos Aires, mentre egli, senza lamentarsi, continua in silenzio, com’è sua abitudine, a pregare e a mortificarsi, perché la missione riesca. E Dio, che esalta gli umili e rende forti nella difficoltà chi a lui si affida, esaudisce la sua preghiera. Infatti, il P. Mazza, invece di chiudere, invia un altro confratello, P. Francesco Salerno, e la situazione migliora. Chi si era lamentato, pentito, chiede di ritornarvi: “Rev.mo Padre, ritorno a Rosario, perché là Dio mi vuole e là mi sento in pace. Io sento in questo periodo di non poter affatto vivere lontano da quell’angelo di P. Pirozzi”.

Il 7 maggio 1939 Mons. Caggiano benedice la nuova casa e presenta alla popolazione il primo parroco di Juan Ortiz: “Date grazie al Signore per aver con voi un santo, santo parroco, pieno di zelo per le anime.” N’è convinto. Infatti, un giorno che alcune signore di Buenos Aires di passaggio a Rosario, per Juan Ortiz, lo incontrano nella Cattedrale, conosciuto il motivo del viaggio, esclama: “Ah! Brave! Siete venute a visitare il santo”.

Il nuovo parroco si dà molto da fare nella parrocchia, specialmente per la catechesi, l’amministrazione dei sacramenti, l’assistenza ai malati ed ai poveri. La sacrestia diventa la succursale dell’ufficio di collocamento. Continuamente va dai dirigenti della Cellulosa e

dai proprietari di terreni per chiedere qualche posto di lavoro per i disoccupati. Ormai tutti lo conoscono nel paese. Il centro del borgo incomincia ad affollarsi ed anche la chiesa. Ed egli pensa di ampliarla, confidando in Dio e nella generosità di alcuni benefattori. I lavori sono in uno stato avanzato, quando nella primavera del 1943 riceve la visita del P. Ruggiero, Delegato del Superiore Generale, al quale manca il coraggio di manifestare il motivo della sua venuta, vedendo il lavoro fatto con tanto amore. Gli sembra fare torto sia al parroco che alla gente, che finalmente ha un pastore. Quando si decide, cercando di far capire che il Superiore lo vuole altrove, il P. Pasquale risponde: “Padre, disponga di me come crede, mi manda dove vuole. Starò certamente meglio dove mi destina l’obbedienza”. Anche i santi sono uomini e qualche giorno dopo qualcuno, passando davanti alla sua stanza, mentre egli fa le valigie, nota che qualche lagrima riga il suo volto sereno, calmo e tranquillo.

La casa di Capitan Bermudez fu la più amata dal P. Pirozzi, per la sua povertà e per l’apostolato tra la gente povera. Gli è costata sacrifici inauditi, ma quella gente una volta lontana, ora è vicina e, quando nella domenica del “Buon Pastore” la saluta ed inginocchiato chiede perdono, tutti scoppiano in lacrime.

All´arrivo a Buenos Aires, prima di raggiungere la nuova destinazione di Montevideo, è tranquillo, come sempre, perché egli vuole solo fare la volontà del Signore.

Qualche mese dopo la sua partenza, s’inaugura la nuova chiesa di Capitan Bermudez, lo vogliono presente, ma egli insiste per essere dispensato con il P. Delegato, che accetta la richiesta ²per risparmiargli emozioni e sicuro che gli elogi che avrebbe avuto sarebbero state tante ferite alla sua umiltà”.

Capitan Bemudez ne custodisce i resti mortali nella chiesa parrocchiale di S. Rocco e per tramandarne ai posteri la memoria ha voluto intitolare una strada a: “P. Pasquale Pirozzi, primo parroco di Capitan Bermudez”.

L´ uomo di Dio

Non so se sia stato mai facile governare, certamente è un compito esigente e fondamentale per la vita consacrata, anche se spesso contrastato. Si richiede spirito di animazione, di aiuto fraterno, di proposta, di ascolto e di dialogo. Il P. Pasquale è una persona mite, pieno di bontà e di rispetto per gli altri e di poche parole. Qualità che nell’animazione di una comunità parrocchiale o religiosa potrebbero essere confuse con l’incapacità a saper prendere decisioni, dirimere divergenze e creare unità. Ma è anche vero che si prendono più mosche con una goccia di miele che con un barile di aceto. Il Servo di Dio da qualche confratello è accusato di debolezza nel governo, ma a voler muovere critiche di direzione nella situazione di Juan Ortiz è, a mio parere, voler cercare l’ago nel pagliaio. Il P. Pasquale è sempre il primo nel lavoro, tiene in ordine i registri sia della comunità che della parrocchia, s’impegna a compiere tutti i suoi doveri di superiore, anima con l’esempio più che con le parole la comunità religiosa, incoraggia i confratelli, chiede consiglio e collaborazione anche nelle cose più ordinarie, s’adopera con zelo e sacrifici, dopo il permesso dei superiori, per l’ampliamento della piccola chiesa di S. Rocco, inizia l’opera eucaristica per gli infermi con la collaborazione dei laici per la loro assistenza materiale e spirituale. Non è mai inquieto, nervoso, infastidito con la gente ed i fanciulli. Infonde fiducia e la gente s’avvicina facilmente. Sulle labbra ha sempre un sorriso sincero e cordiale, per cui è un piacere stare con lui. Chi lo reputa, perciò, un debole e senza spirito di iniziativa dimostra di non aver capito il suo animo buono e mite, sempre pronto a reputare gli altri più buoni di se stesso, a temere di offendere e di far soffrire, a preferire di coprire con il manto della misericordia piuttosto che scoprire le mancanze altrui, a pregare e soffrire lui per gli altri. In una lettera scritta ad un confratello circa la validità della missione in Argentina egli mostra che non è un debole ed indeciso per la forza, la decisione e la chiarezza con le quali affronta l’argomento. E poi la prova del nove se la sua sia debolezza o bontà la dà la gente di Buenos Aires, che non lo dimentica neanche quando è trasferito a Capitan Bermudez. Infatti, molti lo vanno a visitare, a confessarsi, a partecipare alla santa messa e a parlare con lui, affrontando anche un viaggio. Una coppia di anziani coniugi, che vive a Buenos Aires ogni anno si reca a Capitan Bermudez per una settimana. Alloggia a Rosario ed ogni mattina va a Capitan Bermudez, per partecipare alla messa, pregare e parlare con il P. Pasquale delle cose di Dio. Un’altra signora di Buenos Aires, saputo che un confratello si reca a Capitan Bermudez, lo prega di portare al P. Pasquale un pacchetto che contiene della biancheria di lana e raccomanda di dirgli di usarla durante l’inverno. Quando il P. Pasquale apre il pacco, sorride compiaciuto, ma il giorno dopo qualche povero veste quella biancheria.

Forse la gente per il suo bisogno di bontà ha uno spiccato fiuto per scoprire la santità. Molti, infatti, cercano P. Pasquale e gli affidano le loro offerte da dare ai poveri.

Tutti possiamo esprimere giudizi, ma c’è ne uno solo che la storia consacrerà, quello della gente, che del P. Pasquale dice: è veramente un uomo di Dio.

Quando il 3 marzo, dopo penosa, anche se breve, malattia, muore, unanime è il cordoglio. Tutti lo piangono: giovani, uomini e donne. Nella strada l’uno annuncia all’altro: è morto il santo della parrocchia di Nostra Signora dei Dolori ed il P. Delegato del Superiore Generale, che l’ha avuto per compagno per più di venti anni, scrive: “Se tutti se lo piangono, nessuno più di me che ebbi in lui il fratello carissimo, l’amico più stimato ed il collaboratore inestimabile. Nei momenti difficili di dolore e di pena, che così spesso accompagnano la nostra vita, mi bastava guardare la sua persona sempre allegra e tranquilla, per aver la forza di andare avanti. Mai mi diede un dispiacere, mai disse una critica o parola contro di me sia in comunità che con la gente, anzi non perdeva occasione per esaltarmi, cosicché tutti mi rispettavano e mi volevano bene. Era perfetto nell’obbedienza, perché lo era prima nell’umiltà; ammirabile nella povertà, un giglio profumato nella castità”.

La gloria di Dio e la salvezza delle anime sono lo scopo della vita del P. Pasquale e la preghiera e la penitenza il segreto per ottenerle, perciò le raccomanda ai suoi penitenti per ottenere, per intercessione di Maria Addolorata, la salvezza e la santificazione dei fedeli e l’incremento delle opere parrocchiali. Per farsi santo, nelle lettere che scrive ad una sua penitente, consiglia l’amore all’eucaristia, la preghiera, l’umiltà e la penitenza. Dopo la morte del P. Pasquale, il P. Ruggiero racconta un fatto capitatogli il giorno prima che il padre si ammalasse. “Era la fine di febbraio e stavo nel giardino seduto sotto un albero a leggere, quando venni distratto dal rumore dei rami. Alzai gli occhi e vidi un picaflor, che svolazzava da un ramo all’altro. Il movimento faceva rassomigliare le ali a quelle delle eliche di un minuscolo aeroplano. Con rapidità si spostava ed infilava il piccolo becco nel calice dei fiori, quindi si alzava di nuovo, ripetendosi quasi per farsi ammirare. Poi spiccò un volo e si lasciò cadere, descrivendo un angolo retto. Mi incantai a guardare, dimenticando la lettura, fino a quando il picaflor volò alto e scomparve dietro i palazzi, lasciando una scia luminosa, come di una stella cadente. A sera raccontai l’episodio a tavola. Il P. Pasquale ascoltò e poi con ingenuo stupore esclamò: “Come mi piacerebbe vederlo!” Dopo qualche giorno, mentre egli stava nella sua stanza, sentì dei colpetti ai vetri, guardò e vide un picaflor, che voleva entrare. Corse, aprì la finestra, lo prese tra le mani, venne a tavola e felice come un bambino esclamò: “Miracolo, miracolo! Come è buono il Signore con me! Esaudisce tutti i miei desideri!” Quindi mostrò a tutti l’uccellino che teneva tra le mani. Era proprio un picaflor. Tutti ci guardammo meravigliati. Poi egli aprì la mano e lo fece volare. Quella stessa notte venne colpito dal male che lo portò alla morte”. Più tardi qualcuno commenta l’episodio e dice che il Signore gli aveva voluto annunciare la prossima fine.

Pasquale è il picaflor, che vola felice tra i rami dell’amore di Dio, incanta con la sua semplicità ed umiltà ed invita a puntare in alto con la preghiera,l’umiltà e la penitenza, ricordando che la santità non è questione di mente, ma di semplicità, amore e cuore.

Il religioso

La Chiesa, davanti all’ingordigia dei beni, la bramosia del piacere e l’idolatria del potere, affida alla vita consacrata la missione di proclamare ancora nel nuovo millennio la bellezza della povertà in spirito, della castità di cuore e dell’obbedienza libera e volontaria. Tra questi profeti c’è anche P. Pasquale, un uomo umile, mite, povero, puro e dedito alla giustizia. Egli vive la radicalità delle beatitudini evangeliche, che gli spostano in avanti l’obiettivo del suo essere cristiano e gli danno occhi d’aquila per guardare oltre la normale vista dell’uomo. Essere libero per il Regno, riporre la fiducia in Dio, aspirare con cuore indiviso a rassomigliare a Cristo costituiscono l’aspirazione della sua vita.

Egli è il povero che diventa ricco di Dio. Nella vita sembra che niente gli interessi, eccetto che il nascondersi il più possibile in Dio. Non parla mai di sé e se qualcuno lo fa, ricordando, per esempio, i sacrifici affrontati, dice semplicemente che è roba passata. Lavora fino alla morte per la gloria di Dio, senza cercare incarichi, ritenendosene incapace; gli apprezzamenti lo lasciano indifferente; si rallegra, invece, per gli elogi ai confratelli ed è sempre il primo a complimentarsi per il loro lavoro. Tratta volentieri con i bambini, i poveri, i vecchi e li ascolta con pazienza ed amore. Un giorno con il superiore della comunità va a casa di un benefattore, che a tavola, parlando di S. Ambrogio, commenta: “Al leggere come il santo Vescovo si prendesse cura dei poveri, dei malati e degli abbandonati e li visitasse personalmente, spontaneamente il mio pensiero è andato al P.Pirozzi, che con tanta bontà cura i poveri della parrocchia”. “Signor Anon, esclamò il Padre, questi paragoni non si fanno neanche per sogno!” Interviene, subito, il padre superiore per toglierlo dall’imbarazzo: “Con la sola differenza che fra i due c’è una distanza da qui a Milano” “Giusto, aggiunge il P. Pasquale, il superiore ha capito molto bene”.

Cerca di nascondere ad ogni costo i doni di natura e questo convince qualche confratello che egli sia limitato intellettualmente. Invece ha una memoria di ferro. Ricorda con precisione tutte le date e gli eventi delI’Istituto, anche dopo molti anni. Da giovane studia con amore ed impegno. Si tiene aggiornato sulla morale, sulla sacra Scrittura, leggendo i commenti di autori di fama, appena le attività pastorali glielo consentono. Ha una grande conoscenza della vita dei santi, dei padri della chiesa e dell’ascetica cristiana. Questo gli consente di essere preciso, quando gli viene posto un caso di morale o richiesta qualche spiegazione. Possiede bene la lingua spagnola e conosce anche quella francese. Ha una bellissima voce ed un udito musicale così sviluppato, che gli basta ascoltare due volte una melodia per ripeterla all’organo nella chiesa. In pubblico dà l’impressione di essere impacciato nell’esprimersi, ma in privato, nell’insegnamento del catechismo, nelle confessioni, nella direzione spirituale e nelle spiegazioni del vangelo, è chiarissimo. Predica raramente tridui e novene, perché non ha il tempo di prepararsi, occupato nel catechismo ai bambini, nelle confessioni per lunghe ore, nella visita quotidiana ai malati ed ai poveri. Un anno, però, che lo fa al termine della processione eucaristica, impressiona e commuove tutti per la eloquenza ed il fervore.

Fare la volontà del Padre è il pane che desidera mangiare, senza guardare chi sia ad offrirlo. E se qualche volta è duro, non lo rifiuta, convinto che la volontà di Dio è meglio di ogni altra cosa. Sa che Dio parla per mezzo dei superiori e questo basta per un’obbedienza pronta, precisa e gioiosa, anche se l’io si ribelle. In una lettera del 1921 al P. Grampone scrive: “Rev.mo Padre, fin da adesso le dico che voglio mettermi nelle mani dell’ubbidienza e dove essa mi manderà, li andrò con gioia e piacere. Del resto “l’uomo obbediente canterà vittoria”, perciò se io obbedisco e voglio obbedire ad ogni costo, Iddio, Padre tenerissimo e misericordioso, penserà lui ad ogni cosa, anche alla mia famiglia, che è poverissima”. Qualcuno ha capito il suo “debole” per l’obbedienza e ne approfitta, come il sacrestano della chiesa di Nostra Signora dei Dolori in Buenos Aires, il quale un giorno, notando il P. Pasquale aggiungere altre candele e fiori sull’altare di S. Luigi per la festa, gli dice: “Padre, è stato il superiore ad ordinare cosi”. Allora subito egli toglie quanto aveva aggiunto e lo rimette al posto. E questo il sacrestano lo ripete ogni volta che deve coprire qualche sua mancanza. Finché se ne accorge il superiore, che l’avverte: ”Non credere al sacrestano, che mi fa dire cose neanche pensate”.

E’ sempre il primo agli atti comunitari prescritti dalle Regole. Quando riceve qualche obbedienza, l’ascolta con tutta la persona. China il capo, atteggia le labbra al sorriso e negli occhi gli si legge la compiacenza per l’ordine ricevuto. E poi con prontezza ed impegno esegue l’ordine. La sua obbedienza parte dal cuore, perché nutre un amore filiale per i superiori. A Montevideo per prima cosa bacia la mano al suo giovanissimo superiore, perché gli rappresenta Dio.

Libero interiormente, tutto è buono e gli basta: cibo, biancheria, stanza, incarico. Non sa lamentarsi, anzi loda la perizia del cuoco che a stento sa preparare qualche pasto frugale e comune. E’ felice di indossare la biancheria dismessa dagli altri. Quella nuova, che qualche persona gli dona, la dà ai poveri, mentre egli usa quella rattoppata anche ripetutamente, finche non interviene il superiore per fargliela cambiare. Una volta che questi gli fa cucire una talare nuova, tutti i confratelli si complimentano ed egli arrossisce e si vergogna. Il P. Grande racconta che, essendo entrato durante la sua visita canonica nella stanza del P. Pasquale, vi trovò “un piccolo materasso piegato in due, senza lenzuola e cuscino, poiché il letto non gli serviva per dormire, una sedia sgangherata e tanti pacchettini, che egli confezionava di notte per i suoi prediletti poveri. Aveva una sola camicia ed una sola mutande per il ricambio e due fazzoletti, che lavava egli stesso. Ne ebbi tanta compassione che ordinai al P. Girolamo di provvederlo della necessaria biancheria personale. Dopo un mese, al momento di partire per l’Italia, egli già aveva dato tutto ai poveri”.

Un amico di Buenos Aires la vigilia di Natale si reca a visitarlo a Capitan Bermudez. A pranzo consumano un pasto comune. A sera il padre s’accorge che non c’è niente per cena. Allora l’amico per toglierlo dall’imbarazzo, chiede: “Vi sono pomodori, sale, cipolle ed olio?” “Certo!”, gli risponde. “Allora siamo ricchi” replica l’amico, mentre ci accinge a preparare una cena speciale e profumata, consumata nell’allegria più schietta.

Non sciupa niente. Conserva ogni pezzetto di carta per i suoi appunti ed amministra i beni della comunità con scrupolosità.

Il P. Pasquale tiene rapporti di amicizia e di rispetto con tutti. E’ gentile, educato, anche se è attento a concedere familiarità, specialmente alle donne. Modesto e sereno nel comportamento, mostra sempre un grande dominio di sé nel parlare, nel guardare, nel camminare e nel sedere. Dalla sua bocca non escono mai parole e discorsi indecorosi. La vanità e l’immodestia lo rattristano, fino a farlo stare male. Un giorno a tavola ha forti conati di vomito ed il superiore gli consiglia di andare a riposarsi. A sera, siccome la situazione non è cambiata, il superiore impensierito gli chiede: “Ma cosa è successo” Ed egli racconta: “Questa mattina è venuta nell’ufficio parrocchiale una ragazza per una pratica matrimoniale. Aveva un vestito corto, che è diventato cortissimo, quando si è seduta con le gambe a cavalcioni, e le unghie delle mani e dei piedi pitturate di un colore rosso fuoco, che la faceva rassomigliare al diavolo. Ho avuto un senso di vomito, che mi rimane tuttora”.

Una vita da asceta

La santità è la comune vocazione dei battezzati. L’altezza di essa, però, dipende dalla docilità di ciascuno e dall’uso che ognuno sa fare dei mezzi messi a disposizione dalla tradizione della Chiesa e per i religiosi dal proprio Istituto. Essa è un dono di Dio per chi ripercorre le orme di Cristo, prende ogni giorno la croce e rinnega se stesso. Molti sono, infatti, coloro che iniziano la corsa, ma solo chi taglia il traguardo ottiene il premio e la fatica non è poca, specialmente quando si tratta di vincere quell’io, così duro a morire. Gesù ne avverte i suoi discepoli e li invita a vegliare e vigilare, perché non capiti loro come alle vergini del vangelo, che si lasciarono prendere dal sonno e rimasero fuori, quando venne lo sposo. Per non addormentarsi nella vita spirituale sono necessari i mezzi ascetici della penitenza, che formano la volontà, la mente ed il corpo al combattimento, ed aiutano a dominare e correggere le tendenze della natura umana ferita dal peccato e a restare fedeli a Cristo sul cammino della Croce. Chiunque, quindi, decide di andare dietro al Maestro divino deve sapere che gli uccelli hanno un nido, ma il Figlio dell’uomo non ha neanche una pietra dove posare il capo. Questo spiega perché il capitolo sulla penitenza è comune a tutti i santi. Cambiano i carismi, la spiritualità, la storia, gli strumenti, ma non la penitenza, perché la santità non è un cammino da fare in carrozza, ma con i piedi sanguinanti e la croce sulle spalle. Il patriarca Giacobbe riceve la benedizione ed è ammesso alla visione di Dio solo dopo aver sostenuto e vinto il combattimento.

La penitenza

Lo spirito di penitenza è straordinario anche nel nostro Servo di Dio. Egli è educato alla penitenza fin da fanciullo in una famiglia che qualche volta non ha che pane ed acqua da mettere sulla tavola. Così gli inizi della fondazione in Argentina lo trovano allenato, siccome i missionari non hanno neanche un alloggio e per mangiare si affidano alla Provvidenza. E cosa dire della casa di Capitan Bermudez, definita da qualcuno “la casa della perfetta miseria”. Necessità o virtù? Anche P. Pasquale ha il suo carattere, che riesce a dominare, mortificandosi. Egli infatti non tocca né cibo né bevanda fuori dai pasti. E non bere durante l’estate afosa di Buenos Aires è veramente una penitenza grande. Per fortuna che il superiore, quando se ne accorge, l’inviti a bere qualche bevanda alla sua presenza. Nei venerdì e sabati non tocca bevanda in ricordo della passione di Gesù e dei dolori della Vergine Addolorata. E le labbra diventano secche. Ogni giorno celebra l’ultima messa, obbligandosi al digiuno eucaristico fino a quella ora e lo stesso fa la domenica, celebrando le messe delle 11 e 12, dopo quattro o cinque ore di confessioni, senza toccare niente. Non beve vino e liquori. A Natale e Pasqua, dietro insistenza dei confratelli, ne assaggia un sorso. Non fa uso di caramelle nè medicinali per la gola, anche se quando canta la sua voce è così fresca e forte che la gente esclama: “La voce del P. Pirozzi non è voce di uomo, ma di angelo”. Al termine della settimana santa mentre tutti i sacerdoti sono senza voce, egli celebra la messa solenne con una voce forte, per cui qualcuno osserva: “O Dio gli ha fatto dono di un’ugola speciale o lo assiste con un miracolo continuo”. Durante le processioni inizia con la recita del rosario ad alta voce nella chiesa, continua per le strade e termina con il canto solenne del Tantum ergo, senza mostrare segni di stanchezza nella sua bellissima voce.

Il pasto è frugale. Gli piacciono i fagioli, le patate e le lenticchie e qualche volta ne prende un poco in più, invece del secondo piatto. I pomodori li mangia sempre senza condire.La frutta, il dolce e la frutta sciroppata sono la sua tentazione di gola, ma negli ultimi anni di vita a chi gli chiede perché non li mangi, risponde che non l’attirano, senza dire quanto gli sia costato quella sua debolezza. Chiede al cuoco di conservargli il pane duro. Quando ritorna a Buenos Aires, dopo la permanenza a Capitan Bermudez ed a Montevideo, non mangia più la carne. Freddoloso per natura, durante l’inverno soffre terribilmente, anche perché gli si rompono a sangue le orecchie. Qualche volta dal freddo batte i denti e cammina lento e rannicchiato, ma mai si avvicina ad una stufa o fornello per un poco di sollievo. Porta un cappotto, procuratogli dal superiore, ma gli indumenti intimi sono quelli estivi. Lo stesso superiore della comunità testimonia l’impegno del P. Pasquale nel superare quella che egli chiama la sua debolezza per il freddo. “Una notte, forse erano le quattro, all’improvviso sento un rumore forte, come di una finestra che sbatte violentemente, venire dalla sua stanza. Spaventato, corro e lo trovo con la finestra aperta, seduto vicino alla scrivania a leggere un libro. Ovviamente, lo sgridai imponendogli di chiuderla e che la cosa non si ripetesse, avendo rischiato la vita”. Quella volta, per grazia di Dio, se la cava con un raffreddore. A Capitan Bermudez qualcuno, recatosi a visitarlo, lo trova che dorme senza materasso su tre tavole e qualche coperta ed una volta il P. Rettore si accorge che si lava la biancheria prima di mandarla al bucato. Lo interroga se soffra di emorroidi o d’altro e, ricevuta la risposta negativa, gli chiede: “Allora, le macchie di sangue sulla camicia sono dovute ai colpi di disciplina?” “E’ vero, Padre, risponde, arrossendo, ma dipende dal fatto che ho la pelle molto delicata e perciò alcune volte si rompe un poco”. La verità è che tutti, quando fanno in comune la disciplina, prevista dalla regola, sentono che si batte con forza. Le ore di riposo della notte sono testimoniate dallo stesso superiore della comunità, che, nel 1949, essendosi rotta una gamba per una caduta e costretto a stare seduto, passa intere notti in bianco. Egli riferisce: “Ogni notte, dopo l’una ed un quarto, sentivo la porta della camera del P. Pirozzi aprirsi e chiudersi lentamente e così alle quattro del mattino, quando scendeva in chiesa”. Il sacrestano, quando di notte bussa alla sua porta per l’assistenza ad un moribondo, non trovandolo, scende in chiesa dove lo trova o a pregare o addormentato in un banco, sopraffatto dal sonno. Dedica il tempo della siesta alla preparazione delle persone adulte alla prima comunione ed alla cresima. Nelle giornate di grande calore poggia la testa sulla scrivania della sacrestia.

Negli ultimi anni di vita qualcuno ha la sensazione che egli non si accosti più al letto. Chiaramente il corpo a questa penitenza non si abitua facilmente e qualche volta il padre con tutto il suo spirito di penitenza gli deve pagare il dovuto tributo, cedendo al sonno durante la meditazione delle sei del mattino. Qualche confratello osserva che sarebbe meglio dormire il tempo dovuto nel letto, ma a pesare i santi con la bilancia degli uomini i conti non tornano mai.

Preghiera

Il Signore chiede ai suoi discepoli di pregare senza mai stancarsi, perché lo spirito è pronto, ma la carne è debole. E rimprovera Pietro e compagni che non hanno saputo vegliare neanche un’ora. La preghiera mantiene lo spirito sveglio, in continuo contatto con Dio e pronto per la lotta. Essa è l’atteggiamento constante del nostro Servo di Dio. Prega sempre in ginocchio e a chi gli fa osservare che le ginocchia non sono di legno, egli risponde allegramente che non si soffre tanto e che un poco alla volta ci si abitua, siccome l’esercizio le fortifica. La celebrazione della santa messa dura quaranta minuti, ma la gente è edificata dalla sua pietà e devozione. Nutre un amore filiale, tenero e sincero per la Vergine SS. Addolorata. Recita ogni giorno il santo rosario per intero e non perde occasione per inculcare la devozione alla Madonna nella gente. La sua pietà sincera e sentita non ha niente di affettato. Chi lo incontra ha la sensazione di essere alla presenza di un uomo di Dio. Mons. Tommaso Solari, vescovo della La Plata, che si confessa dal P. Pasquale, un giorno dice al P. Ruggiero: “Non sapete quale tesoro avete nella vostra comunità”.

“Con il cuore nel Tabernacolo”

L’espressione è di un confratello che vive con lui. Il tabernacolo è il luogo dove il P. Pasquale trascorre tutto il tempo che gli avanza dalle sue opere apostoliche e, anche, molte ore della notte. La notte, tempo di silenzio e d’intimità, P. Pirozzi la preferisce per intrattenersi più a lungo ai piedi di Gesù, anche se qualche volta vi si addormenta, perché lo spirito è pronto, ma la carne è debole. I suoi colloqui intimi con Cristo restano segreti, ma si notano gli effetti: una vita spesa ad amare. Il tabernacolo insegna ad amare, perciò più tabernacolo, più presenza di Cristo nella vita, più amore per gli uomini. P. Pasquale a questa sorgente impara ad amare Dio ed il prossimo.

Il tabernacolo è il centro della sua vita religiosa e sacerdotale. E’ edificante e commovente ammirarlo estatico, senza fare il minimo movimento, ed immancabilmente in ginocchio, davanti al tabernacolo. Una volta un confratello lo cerca e, ammirandolo estatico davanti al tabernacolo, non ha il coraggio di disturbarlo. La domenica pomeriggio il parroco nota che alle 15 un gruppo di persone recita il rosario e rivolge di tanto in tanto lo sguardo al P. Pasquale. Incuriosito, chiede il motivo della scelta dell’ora insolita per pregare, ed esse le confidano: “Veniamo per pregare con il P. Pirozzi, che a questa ora recita il breviario, e lo guardiamo per infervorarci”. Durante la preparazione precedente la prima comunione dei fanciulli, parla loro con tanto amore di Gesù presente nella santissima Eucaristia che le mamme esclamano: “Questo padre è veramente santo! Quando parla di Gesù eucarestia ai bambini si trasforma!” Ma per il P. Pasquale è tutto naturale, preferisce il tabernacolo solo perché attratto dalla presenza reale di Gesù. Anche durante gli esercizi spirituali tra una conferenza e l’altra è davanti al tabernacolo, preferendolo alla lettura di ogni altro libro per esaminare la sua vita e guardarsi nello specchio tersissimo dell’amore di Cristo per scorgere meglio ciò che gli impedisce di rassomigliargli sempre più.

Nessuno sa quante notti abbia trascorso in chiesa, ma certamente saranno state parecchie. Una volta il sacrestano si ritira alle due della notte, essendo andato a visitare i suoi familiari. Prima di andare a letto, passa per la chiesa per verificare se la lampada è accesa. Appena apre la porta, ha un tonfo al cuore. Nota un’ombra ai piedi dell’altare. Si avvicina e vi scopre il P. Pasquale.

A Capitan Bermudez alcuni operai, terminato il turno di lavoro, tornano a casa all’una della notte e, passando davanti alla chiesetta di S. Rocco, si accorgono che è illuminata. Pensando ai ladri, bussano alla porta della comunità per chiamare i sacerdoti. Dopo poco s’affaccia il P. Pasquale, che dice: “Grazie, sto terminando le pulizie, tra qualche momento mi sarei ritirato nella mia stanza. Andate in pace. Dio vi benedica”. Nelle notti seguenti quegli uomini capiscono che i “pochi minuti” sono ore ed imparano che la luce accesa indica la presenza del P. Pasquale, che non lascia la chiesa prima dell’una o delle due della notte. Ovviamente, la cosa non può passare inosservata e qualcuno incomincia a preoccuparsi, per cui, durante la visita canonica, ne parla con il P. Grande Luigi, superiore generale, che ordina al P. Pasquale di dormire tutte le notti a letto. Non gli dice, però, quante ore deve dormire, per cui egli si trattiene in chiesa fino all’una di notte, prima di andare a letto. E di mattina, alle 4, 30, già prega davanti al Tabernacolo.

Lo stare sempre in ginocchio gli causa qualche difficoltà. Infatti, durante una processione si nota che cammina vistosamente zoppo ed ha una smorfia di dolore sul volto. Terminata la celebrazione, si ritira nella stanza. Le scale sono dolorose ed egli deve fermarsi. Il P. Rettore lo raggiunge, gli scopre la gamba destra e nota che ha una nerissima macchia sotto il ginocchio. Preoccupato, chiama il medico che gli ordina il riposo. Passati solo quattro giorni, si presenta al superiore, chiedendo di riprendere i suoi impegni.

Nel 1932 capita un episodio che vale la pena raccontare. A Buenos Aires vi sono solo il P. Pirozzi ed il P.Ruggiero, che non si stanca di ripetere al suo compagno: “Cerca di mangiare, di dormire e di non affaticarti, perché se ti ammali, io sono solo”. Un giorno il P. Pasquale, al ritorno dalle visite quotidiane ai malati, sta male. Ha una febbre altissima, che gli impedisce anche di stare in piedi. La domenica il P. Ruggiero deve lavorare per due, per cui, terminate le celebrazioni, va nella stanza del P.Pasquale e gli grida: “Per obbedienza ti ordino, quando starai bene, di andare davanti all’altare e di dire al Signore che non ti facesse più ammalare”. Da quel giorno il P. Pasquale non s’ammala più. Infatti la gente, che lo vede sempre attivo ed impegnato, esclama: “E’ un uomo di ferro! Lavora sempre, non si stanca ed ammala mai”.

Il confessore ed il direttore spirituale

“Sempre Dio, che non vuole la morte del peccatore, è più misericordioso di noi suoi ministri. Perciò siate misericordioso quanto potete esserlo, perché troverete misericordia presso Dio”, scrive il beato Gaetano Errico al P. Emanuele Speranza. La misericordia, la comprensione, la tenerezza, la solidarietà, l’amore a Dio ed al prossimo egli vuole che contraddistinguano la vita del suo Istituto religioso.

Il P. Pasquale, alla scuola del Fondatore, diventa un altro “campione del confessionale”, come lo definisce un confratello, ammirato per il tempo che vi trascorre. E’ sempre disponibile, accogliente, ricco di consigli, non ha mai fretta. Al suo confessionale c’è sempre gente: fedeli, religiosi, religiose e sacerdoti. Alcuni per confessarsi fanno anche chilometri. Egli è pieno di amore, di premure e di pazienza. Spesso ripete le domande per aiutare il penitente. Il suo linguaggio semplice attira, tocca i cuori ed incoraggia a camminare sulla via della santità; la sua purezza suscita il pianto e la sua umiltà incanta. Il suo consiglio è frutto d’esperienza di vita e di contatto continuo con Cristo, come si può ricavare dalla corrispondenza con la signora Maria Rosaria de Bressa, alla quale dirige alcune lettere.

Nella prima lettera parla della responsabilità di essere mamma di un sacerdote e dell’influenza che una mamma può esercitare sulla vocazione sacerdotale del figlio: “Con la bontà del cuore, con la generosità e particolarmente con l’amore a Gesù ed a Maria SS. è possibile crescere nella virtù e nella santità, perché, amando molto, moltissimo Gesù e Maria, potete piacere a Dio, come si conviene, e corrispondere al meglio alla grazia ricevuta di essere madre di un sacerdote. La vocazione è dovuta ai sacrifici, alle pene, alle amarezze, alle sofferenze, alle opere buone, alla generosità, alla carità verso i poveri ed alle preghiere di una madre.” Quindi, l’invita a non perdere mai di vista la santità e ad esercitarsi nella virtù dell’umiltà, che tanto piace a Dio, e ad obbedire al proprio direttore spirituale: “Tenete sempre la buona volontà di farvi santa? Tenete sempre il desiderio di trasformarvi in Gesù e di rassomigliargli? Avete sempre l’amore per la virtù?” “Seguite sempre i consigli del Padre spirituale e impegnatevi a praticarli nel migliore dei modi e senza esitazione. Siate sempre umile, molto umile, perché l’umiltà piace molto a Dio, a Gesù ed alla Vergine SS., attira lo sguardo di Dio, che è uno sguardo di dolcezza, di bontà, d’amore, di misericordia e di perdono e piace molto a Gesù, che nella santa comunione viene nel vostro cuore con amore, con ansia e con le mani piene di grazie per espandervele e santificarlo. Con l’umiltà preparate un cibo squisito per Gesù, che desidera riposare nel vostro cuore, dopo la santa comunione. Con essa Egli si unisce strettamente alla vostra anima e la riempie delle sue carezze, della sua dolcezza, delle sue finezze e del suo amore. Con l’umiltà del cuore lo fate contento ed addolcite le amarezze, causategli da tanti orgogliosi. Con l’umiltà del cuore scompariranno l’orgoglio, la propria volontà e l’attaccamento alle creature; piacerete a Gesù in tutto e per tutto; il vostro cuore si svuoterà dei sentimenti umani e si riempirà di purezza, di carità e di santo amore per Dio e la Vergine SS.; progredirete rapidamente nelle virtù; camminerete svelta verso la santità ed acquisterete moltissimo per la vita eterna. Siate umile sempre: oggi, domani e fino all’ultimo respiro della vostra vita, così Gesù regnerà nel vostro cuore, come Re e Signore, ed in modo particolare sarà come un dolce padre, pieno di bontà e di amore. Egli riposerà tranquillamente nel vostro cuore, senza essere disturbato da alcuno, perché non c’è l’orgoglio che l’amareggia. Se oggi Gesù regna nel vostro cuore, nella vita eterna sarete voi a regnare nel cuore di Dio, dove l’anima troverà la vera felicità ed il bene infinito”. (Juan Ortiz gennaio 1938)

In un’altra lettera siccome ella si lamenta di trovarsi sempre negli stessi difetti e di non notare miglioramenti nella sua vita spirituale, il P. Pasquale l’incoraggia: “La carità per i poveri, il disprezzo per le cose terrene, il poco parlare, il desiderio di vivere lontana dal mondo, la poca cura per l’abbigliamento della persona, il desiderio di comunicarvi ogni giorno, la grande devozione alla Vergine SS., la modestia, il desiderio di essere santa, la grande fiducia in Dio, la buona volontà di impegnare bene le proprie ricchezze, l’amore per la salvezza delle anime, i sacrifici nel lavorare per la gloria di Dio, sono il giovamento che voi traete dai consigli del direttore spirituale. Il fatto poi che ancora vi troviate piena di difetti è un dono del Signore, perché, facendovi vedere lo stato della vostra anima, potete impegnarvi a liberarvi da questi difetti ed a rendere bella la vostra anima”. E le raccomanda: “Siate umile, molto umile, sempre umile, perché questa virtù è più che sufficiente per farvi piacere molto, moltissimo al Signore ed alla Vergine SS. ed a rendere bella la vostra anima”. (Juan Ortiz 30 giugno 1938)

Nella lettera del 2 aprile 1939 riflette sulla passione e morte di Gesù: “Per essere santa è necessario morire per risuscitare. Se Gesù non fosse morto, non sarebbe risuscitato. Lo stesso è per tutti noi nell’ordine spirituale: è necessario morire per risuscitare. A che cosa morire? Al proprio orgoglio, alla superbia, alla vanità, alla vanagloria, al desiderio di essere stimato, di essere tenuto in conto, di essere apprezzato, di essere lodato, di tenerci che tutti ammirino le nostre opere, si congratulino con noi, parlino bene di noi. A questo bisogna morire per risuscitare ad una vita umile, virtuosa e santa; ad una vita più conforme a Cristo; ad una vita di amore verso Gesù, la Vergine SS. e S. Giuseppe; ad una vita di maggiori sacrifici, rinunce e privazioni, in una parola ad una vita che non cerchi e non desideri che Gesù, sempre Gesù e solo Gesù. Se in questa vita procuriamo di morire a noi stessi per vivere solo e sempre per Gesù, un giorno risusciteremo ad una vita di gloria, di gioia, di trionfi, di vittoria, di splendore, di pace, di felicità, d’incanto, d’infinita calma, di bene, di bellezza, di luce, di amore, di carità eterna, di verità e di luce infinita. Come ci conviene morire a noi stessi in questa vita per vivere solo per Gesù e risuscitare ad una vita eterna, che, senza dubbio, sarà quella vera, perché per sempre si vivrà della stessa vita, della stessa carità e dello stesso amore di Dio, siccome Egli è amore eterno, infinito, sostanziale, nel quale amore consiste l’eterna ed infinita felicità, che rende beati tutti gli abitanti del paradiso”. (Juan Ortiz 2-4-1939)

Nell’ultima lettera del 24 gennaio 1950 sembra descrivere il suo stato d’animo: “Nell’ora della sofferenza dovete mostrarvi fedele a Dio, dimostrargli il vostro amore sincero, affettuoso, filiale, vero e partecipare un poco al suo dolore. Pensate di poter amare, senza soffrire? Santificarvi senza dolore? Questo è impossibile. Ricordatevi che le anime quanto più amano tanto più sono ricompensate con il dolore; quanto più partecipano alla sua vita dolorosa in questo mondo tanto più parteciperanno alla sua gloria in cielo. Le anime che veramente desiderano intraprendere il sentiero della santità e si propongono a tutti i costi di santificarsi, devono abbracciare con tutta l’allegria dell’anima la croce, che Gesù le manda. Dovete amare come Gesù il dolore, le pene, le amarezze, le umiliazioni, i disprezzi, le calunnie. Ed a soffrire tutte queste cose, aumenterà la vostra gioia, perché le anime che amano davvero Gesù, sanno molto bene che senza la croce, senza la sofferenza, senza la mortificazione non possono essere vere spose di Gesù, non possono avere la gioia perfetta, rassomigliargli e servirlo totalmente. Per questo, esse diverranno veramente amanti di Cristo, che sarà tutto per loro, non desidereranno più bene, ricchezza, tesoro, gioia, delizia, vita, felicità, paradiso, cielo, perché Gesù per loro è tutto. Gesù riempie completamente la loro intelligenza, la loro memoria, la loro volontà, il loro cuore, i loro occhi, in una parola per loro Gesù è tutto”.

All’inizio di febbraio 1950 i sacerdoti della comunità notano che il P. Pasquale cammina lento, sale le scale con fatica, sosta nella stanza più del solito, parla pochissimo, preferisce rimanere raccolto nel suo silenzio ed alla fine del mese un blocco renale lo inchioda sulla croce. Scrivendo sembra quasi che abbia presagito il suo momento della croce: “Pensate di santificarvi senza dolore?” aveva detto alla signora de Bressa. Ed ora che è giunta la sua ora, accetta con serenità la croce, soffre dolori atrocissimi, senza lamentarsi, sopporta tutto con straordinaria fortezza, fissa ancora gli occhi su Cristo e gli ripete il sì definitivo per celebrare le sue nozze eterne.

Verso la beatificazione

Dopo la morte del P. Pasquale unanime è il riconoscimento della sua santità e l’augurio che presto s’inizi la causa di beatificazione.

“Da quando conobbi il P. Pirozzi, rimase impressa nella mia mente l’immagine della sua persona, che rifletteva esternamente tutta la ricchezza della sua vita interiore, rinchiusa nella sua anima sacerdotale. Con la sua umiltà caratteristica conquistava la simpatia di quanti lo circondavano e si propiziava lo sguardo di Dio, che fece prosperare il suo apostolato, in beneficio di tante anime che ebbero il privilegio di incontralo”(S.Ecc.za Tommaso Solari)

“Con la morte di un tale santo si è estinta una vita esemplare, interamente consacrata all’eminente missione, che Dio gli aveva assegnato da compiere in terra” (Ass. Alvear)

“Il P. Pirozzi è stato un’anima virtuosa, che il Signore ha chiamato a sé per premiare una vita consacrata alla conquista delle anime per il cielo” .(Le Suore Adoratrici)

“Egli era l’uomo di Dio, nella cui anima non esisteva malvagità. Era la guida di quanti ricorrevano a lui per consigli e, soprattutto, il direttore spirituale nella complicata selva dei problemi dell’anima. Era il sacerdote dedicato in pieno al compimento della sua missione di fare il bene, di asciugare le lacrime, di placare gli odi, di portare la pace”. (P. Longo Rocco)

“Le notti passate in ginocchio dinanzi al SS. Sacramento lo accomunano al Fondatore, come pure la sua non comune carità per i poveri, i diseredati e gli emarginati. Sotto il suo sorriso bonario, nascondeva uno spirito di sacrificio e di mortificazione senza limiti. Forse il suo sorriso bonario lo fece apparire a non pochi come un semplice e fervoroso religioso, mentre nella sua anima v’era stagliata la figura di un santo vero e proprio. Tutta la sua vita fu un continuo invito alla santità. La sola presenza bastava ad ispirare sentimenti di bontà, di confidenza, di serenità. Ai suoi confratelli fu d’esempio per la sua pietà, il suo profondo spirito di fede, la sua inesauribile carità. Ha convertito le anime più con la preghiera che con l’azione, più con l’esempio della vita che con l’eloquenza della parola. La sua stessa voce, che egli usava solo per le sacre cerimonie, aveva un fascino irresistibile. Aveva una voce di un angelo, al dire di quelli che lo conobbero”. (P. Luigi Grande)

“Nelle tre case parrocchiali dove visse, i fedeli unanimi dicevano: “P. Pirozzi è un santo. Personalmente sono convinto che il P. Pirozzi esercitò in vita le virtù cristiane, sacerdotali e religiose in grado eroico” (P. Gaetano Ruggiero).

“La sua figura rimarrà nel bronzo ed indicherà a quanti passano per questa casa di Dio e di preghiera che l’effigie, che sorride, è di un essere privilegiato del quale si dirà: “Fu un uomo buono con animo di santo e di fanciullo”. (Rodolfo Cotone)

“E’ incalcolabile il bene che ha fatto e sta facendo tuttora alle anime con il ricordo delle sue virtù straordinarie”. (Renè Wathelet)

Alla morte la sua roba è accuratamente conservata e con i fogli del suo breviario e l’abito religioso si fanno reliquie da distribuire ai confratelli ed alla gente.

La signora Carmela de Fiori racconta che nel maggio 1951 era stata colpita nella regione lombosacrale da un dolore atroce, che l’immobilizzò a letto. L’otto giugno, incominciando a sentirsi meglio, provò ad alzarsi, ma restò bloccata, sentendosi spezzare le ossa e venir meno la vita. Allora tra lacrime e gemiti invocò il P. Pirozzi, perché le ottenesse da Dio la guarigione o almeno la vita fino all’arrivo dal lavoro della figlia o della sorella. Passarono due ore ed il dolore scomparve completamente. Sentì la sensazione della calma dopo il passaggio dell’uragano. La mattina seguente riprese tutte le attività domestiche. E conclude: “Ciò che mi è capitato l’8 giugno non lo posso raccontare con le mie povere parole, perché grande fu differenza tra il dolore di prima e la calma di dopo. Sono certa che devo questa grazia all’intercessione del P. Pirozzi e, come segno di giustizia e di gratitudine, desidero farla conoscere per dare un mio contributo alla causa di beatificazione, che tutti in parrocchia speriamo si possa aprire al più presto.”

Raffaele Serrano ha la sorella Carmela, di 84 anni, molto malata, che ogni mattina si alza con conati di vomito e mal di testa. La dottoressa le prescrive delle pillole, che, però, non le tolgono i fastidi. Allora egli la raccomanda al P. Pirozzi e con meraviglia constata che i conati di vomito ed il male di testa scompaiono, sicché la sorella può riprendere la sua vita normale. “La guarigione di mia sorella, scrive alla postulazione, non è un grande miracolo, ma voglio farla conoscere, perché tutti sappiano la potenza del P. Pirozzi presso Dio.”

La signora Marisa Yus di Capitan Bermudez è in villeggiatura a Mar de Ajo’, una località a 175 Km. del Mar del Plata. Vicino alla sua casa abita una famiglia amica, il cui papà, mentre sta in spiaggia, ha un arresto cardiaco. Viene subito trasportato con l’ambulanza a Mar del Plata, siccome l’ospedale del luogo non è attrezzato, in stato comatoso. La signora Marisa, la mamma, il padre ed i vicini incominciano a pregare il P. Pirozzi. Le condizioni del paziente restano gravi ed i medici non danno il consenso per il trasporto all’ospedale di Rosario. La signora Marisa, ritornata a Capitan Bermudez, si reca a pregare sulla tomba del P. Pirozzi, per chiedere la sua intercessione. Dopo qualche giorno le arriva da Mar del Plata la buona notizia che l‘amico si è svegliato, parla e si muove, tra la meraviglia dei medici, che dicono: “E’ un miracolo che quest’uomo stia bene e senza conseguenze neurologiche”.

La memoria nell’Istituto dei Missionari dei Sacri Cuori della spiritualità eucaristica, dell’amore per i poveri ed i malati, della vita di mortificazione e della perfetta osservanza delle Costituzioni del P. Pasquale è sempre viva.

Il P. Gaetano Ruggiero raccoglie le testimonianze della gente e racconta mensilmente la vita del P. Pasquale dal novembre 1952 al giugno 1956 nel bollettino parrocchiale “S. Roque” di Capitan Bermudez.

Il P. Sacchetto Armando, Delegato del Superiore Generale, ne parla continuamente ai giovani in formazione ed il 19 marzo 1985 chiede alle Autorità civili e religiose di trasportarne i resti mortali nella chiesa parrocchiale di S. Rocco, vicino ai parrocchiani, che mai hanno dimenticato il loro primo parroco.

Il P. Gabriele Gaglione ne scrive la biografia nel 1985: “La Vida del P. Pascual Pirozzi”.

La signorina Elena Sirò, leggendo gli appunti del P. Ruggiero, scrive un opuscolo: “El buen Padre”.

Il P. Giuseppe Russo, Superiore Generale, durante le visite alle comunità argentine, ascolta le persone che hanno conosciuto il P. Pasquale e ne scrive una biografia: “Sulle orme del Padre”, “per far conoscere ai confratelli ed a quanti non lo conobbero la luminosa figura d’un degno figlio di Gaetano Errico, il quale seppe seguire con estrema diligenza le sante orme del Padre”.

Nell’ottobre del 1998 il P. Generale, in visita canonica alle comunità in Argentina, chiede ai confratelli di aprire il processo di beatificazione e nell’aprile 2000 il P. Hector Zordan, delegato del Superiore Generale e vice-postulatore della causa, presenta all’Arcivescovo di Buenos Aires, il Card. Jorge Bergoglio, la richiesta dell’apertura della causa, che avviene il 27 agosto del 2001.

La gente, contenta per l’evento, continua a ripetere: “P. Pirozzi era veramente un santo!”

PROPOSITI

del P. Pasquale Pirozzi

dopo gli Esercizi Spirituali del 1927

Ecco quanto propongo in questi santi e spirituali esercizi di fare per l’avvenire, sempre con l’aiuto della divina grazia, senza la quale non farò né potrò far niente e con l’intercessione della Madre mia dolcissima e santissima e con la protezione del Patriarca San Giuseppe e del mio Venerabile Padre Fondatore Gaetano Errico.

1° Contro la mancanza della meditazione procurerò tutto il possibile di mai mancare alla meditazione, essendo questa, dopo la santa Comunione, il nutrimento dell’anima nostra. Riguardo alla meditazione della mattina propongo di alzarmi tutti i giorni alle quattro per fare nella mia stanza un’ora di meditazione e quella della sera, quasi sempre alle sei e mezza, la farò o in cappella o nella mia stanza, e, quando non posso farla a quest’ora, dopo l’esame generale di coscienza.

2° Contro la mancanza di silenzio, procurerò tutto il possibile di osservarlo il meglio possibile, essendo esso un freno per custodire la mia lingua a non farla cadere in tante mancanze; di non andare senza motivo nella stanza del Padre Rettore né in giardino. Nel corridoio procurerò di non alzare la voce e mai chiamare alcuno da lontano. In chiesa e in sacrestia farò tutto il possibile, ci metterò tutta la mia buona volontà, di non dire neppure una parola e, quando per necessità dovrò avvisare il sagrestano di qualche cosa, gliela dirò a voce bassissima. In chiesa quando dovrò lavorare con altri procurerò di non domandargli niente. Come pure nel coro, quando dovrò concertare, eviterò ogni parola inutile. Fuori della ricreazione, dopo pranzo e dopo cena, generalmente con gli altri parlerò a voce bassa.

3° Contro la mancanza di modestia, procurerò di osservarla in tutti gli atti della mia vita, specialmente non guardando nessuno nel camminare; stando ben composto nello stare seduto; evitando nel parlare qualunque parola anche minimamente equivoca; nutrendomi, non mangerò con avidità, come se non avessi mangiato chi sa da quanti giorni, ma con moderatezza; negli occhi, facendo tutto il possibile di non guardare certe persone, che potrebbero suscitarmi dei cattivi pensieri; nelle mani, non dando la mano a chi potrebbe farmi venire dei brutti e cattivi desideri. Contro l’incostanza nell’osservare le Regole, farò tutto il possibile di osservarle bene e sempre. Penserò ogni giorno all’eternità ed alla brevità della vita, essendo questi due pensieri efficaci a farmi osservare sempre e bene le mie sante Regole.

4° Contro la mancanza di carità fraterna, a cui ho mancato spesso per il passato, propongo quanto segue: 1) Eviterò ad ogni costo la mormorazione sia contro il mio P. Generale sia contro il mio P. Rettore sia contro i miei confratelli sia contro il mio prossimo. 2) Tratterò tutti con grande affabilità, carità e gentilezza. 3) Non userò nessuna parola scortese con chicchessia; non dirò nessuna parola anche minimamente offensiva. 4) Guarderò i poverelli sempre come la persona di Gesù Cristo. 5) Tratterò di aiutare tutti quelli che io posso. 6) Raccomanderò al Signore nelle mie preghiere tutti i miei confratelli, amici e persone care. Quando mi parla qualcuno con modo scortese, cercherò sempre di rispondergli con dolcezza, carità e amabilità, essendo la carità la regina di tutte le virtù ed in modo particolare raccomandata dal nostro Divino Salvatore Gesù Cristo.

6°Contro la mancanza di studio, procurerò di essere molto amante dello studio: studiando in ciascun giorno della settimana una scienza, che sono obbligato a sapere, per esempio: il lunedì Teologia morale; martedì Dogmatica; mercoledì Diritto Canonico; giovedì Sacra Scrittura; venerdì Liturgia; sabato Catechismo grande. E ciò tutte le mattine fino a mezzo giorno; durante poi il resto della giornata studierò quello che più m’interessa.

7° Contro la mancanza di pazienza, procurerò di non alterarmi più; soffrirò in pace tutte quelle parole che mi offendono; non risponderò con parole offensive a chicchessia; sarò calmo e tranquillo anche quando mi tratteranno da villano; procurando di essere con tutti affabile e dolce, non solo quando sono rispettosi con me, ma anche e molto più quando mi tratteranno male e scortesemente. Essendo questo il modo di guadagnare tutti e portarli a nostro Signore Gesù Cristo.

8°Contro la mancanza di conformità alla volontà di Dio, procurerò da oggi in poi di uniformarmi alla santa volontà del Signore. Tutto quello che mi accade, sia che mi causi gioia o dolore, onore o disprezzo, risata o pianto, lo riconoscerò venuto dalle mani di Dio e la prima cosa che dirò è: “Santa volontà di Dio” e a chiunque succede una disgrazia o che mi narri una cosa triste accaduta, io non gli dirò “Oh! mi dispiace assai” o “Come è possibile”, ma: “Dobbiamo fare la santa volontà di Dio, che tutto permette per nostro bene”. Quando una persona si raccomanda alle mie preghiere per ottenere una grazia temporale, non le dirò semplicemente: “Come, no? pregherò con tutto il cuore”, ma “pregherò con tutto il cuore il Signore, affinché, se è conforme alla Sua santissima volontà, le conceda presto la grazia”.

9° Contro la mancanza di lavoro, procurerò da oggi in poi di non fuggirlo. Quindi non rinunzierò mai di confessare sia quando faccia molto caldo che molto freddo; sia quando vi è molto o poco da confessare. Non darò mai ad altri l’incarico di amministrare i Sacramenti ed assistere i moribondi, quando l’occasione si presenta a me e non ad altri. E se gli altri si mostrano poco volenterosi ad abbracciare la fatica, l’abbraccerò io con tutta la contentezza e con tutta la buona volontà.

10° Contro la mancanza di sacrificio, procurerò di sapermi sacrificare a tempo opportuno; quindi, quando si tratta di lavorare per la gloria di Dio e per il bene delle anime, non baderò a stanchezza né a sonno né a fame né a freddo né a caldo né se è di notte o di giorno né se è presto o tardi né se piove o è buon tempo. Per sapermi sacrificare, penserò, specialmente nell’atto del sacrificio, alla brevità della vita e all’eternità.

11° Contro la mancanza di zelo, procurerò da oggi in poi di zelare quando più mi è possibile la gloria di Dio e la salute spirituale delle anime, predicando, esortando, consigliando, avvisando, sempre che si presenti l’occasione favorevole.

Mio caro e dolce Gesù, accettate questi propositi fatti ai vostri piedi. Li metto nel vostro Cuore dolcissimo. Fate che io li metta in esecuzione per la sola gloria vostra. Madre mia dolcissima, per i vostri immensi dolori fate che questi propositi, che io ho fatto, non siano inutili, senza esecuzione, ma che io li compia fedelmente fino alla mia morte per piacere a Gesù e a Voi. Mio protettore S. Giuseppe, pregate assai per me, affinché sia fedele ai miei propositi. Venerabile Padre Gaetano Errico, pregate assai per me, perchè metta in pratica questi propositi, per essere un degno vostro figlio e salvare e santificare l’anima mia. A.D.M.G.




Fonte www.missionarisacricuori.it

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