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LA MAFIA MI FA SCHIFO. La lezione semplice di Paolo Borsellino: fare il proprio dovere

«Chissà se il buon Dio perdonerà Palermo», canta, come una preghiera, Carmen Consoli in un brano dedicato all’Esercito silente di una Palermo «baciata da sole e mare», che fa i conti con «antichi rancori e ferite aperte» e che ogni giorno lotta per il riscatto: rispetto al passato insanguinato e al presente di chi non vuole che la città cambi.

Contro chi crede che basti decapitare una statua di Giovanni Falcone davanti alla scuola a lui intitolata allo Zen o bruciare la foto simbolo in cui Falcone e Borsellino sono insieme sorridenti, per cancellare la sfida nuova di Palermo, quella di «Giovanni e Paolo, ancora vivi» e il loro esempio di «compiere il proprio dovere», fino in fondo.

È il messaggio che emerge con forza, ma con un tono mite, senza sensazionalismi, dal libro di Alessandra Turrisi, Paolo Borsellino, l’uomo giusto (San Paolo, pagine 120, euro 15,00), in cui la giornalista, collaboratrice di Avvenire, ripercorre la figura esemplare del magistrato siciliano ucciso dalla mafia – il 19 luglio 1992, nella strage di via D’Amelio – attraverso le voci delle sue amicizie più intime, i racconti di chi lo ha conosciuto più da vicino, che in maniera semplice e profonda scavano nella memoria dei giorni trascorsi con Paolo.

C’è il ricordo appassionato di Diego Cavaliero (oggi giudice alla Corte d’Appello di Salerno), uditore giudiziario quando Borsellino era procuratore a Marsala, con cui costruirà una salda amicizia durata tutta la vita: il 12 luglio del 1992 Borsellino era da lui in Campania per fare da padrino di battesimo al figlio Massimo: «Ma non è Paolo quello che ho di fronte, è completamente diverso». C’è il cardiologo Pietro Di Pasquale che ripercorre minuto per minuto quella domenica surreale. C’è il barbiere Paolino Biondo, da cui andava ogni quindici giorni: «Paulì, me li tagli i capelli?». C’è don Cesare Rattoballi, parroco dell’Annunciazione del Signore, che raccoglie le sue ultime confessioni: «Ora tocca a me». C’è la sua famiglia – la moglie Agnese, i figli Lucia, Fiammetta e Manfredi – ma sempre sullo sfondo. Ci sono i superstiti, i “miracolati” di chi doveva essere lì e per fortuna non c’era.

Quello che ci offre la Turrisi è un affresco inedito ed emozionante non di un eroe, ma di un uomo con un «sorriso di accoglienza» e una «risata contagiosa», severo ma «giusto », di grande fede, che «quando va in Chiesa, entra in ginocchio ed esce in ginocchio», «un padre, con tutte le sue debolezze, un figlio fino alla fine vicino alla madre». Un magistrato che «ha voluto compiere fino in fondo il proprio dovere», senza compromessi, ecco. «Accettando il rischio», qualunque siano – è lui che parla – «le conseguenze del lavoro che faccio, del luogo dove lo faccio. E vorrei dire, anche di come lo faccio». Senza lasciarsi «condizionare dalla sensazione o dalla certezza che tutto questo può costarci caro».





Parole pronunciate venti giorni dopo l’uccisione di Falcone, quando sapeva bene che il prossimo sarebbe stato lui. Il suo testamento morale, divenuto patrimonio di tutti, è in quel discorso al termine della marcia organizzata dall’Agesci in ricordo dell’amico Giovanni, nella chiesa di San Domenico, il 20 giugno 1992: «La lotta alla mafia non doveva essere soltanto un’opera di repressione, ma un movimento culturale e morale, che coinvolgesse tutti, specialmente le giovani generazioni, le più adatte a sentire subito la bellezza del fresco profumo di libertà che fa rifiutare il puzzo del compromesso morale, dell’indifferenza, della contiguità e, quindi, della complicità». Come? «Facendo il nostro dovere, rispettando le leggi. Rifiutando di trarre dal sistema mafioso anche i benefici che possiamo trarne (gli aiuti, le raccomandazioni, i posti di lavoro); dimostrando a noi stessi e al mondo che Falcone è vivo!».

Il 19 luglio 1992, alle 16.58, una Fiat 126 imbottita di tritolo viene fatta esplodere in via D’Amelio. Non c’è scampo per il giudice Borsellino e per cinque agenti di scorta, i suoi “angeli custodi”. «Quel pomeriggio – scrive Turrisi – un cazzotto nello stomaco colpisce i palermitani e non solo». Ma Palermo non sarà più la stessa. Dopo 25 anni «Paolo e Giovanni sono ancora vivi». E chissà se il «buon Dio perdonerà Palermo».




Fonte www.avvenire.it/Giuseppe Matarazzo

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