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”Io, araba cristiana ho vissuto in Vaticano la semina della pace”

margaretpMargaret Karram, nel corso dell’incontro di preghiera, ha dato voce alla preghiera di San Francesco. La sua riflessione: ”Dobbiamo fidarci di più della forza della preghiera e forse anche pregare di più perché Dio ci doni il dono della pace. Dio benedice non solo i passi che compiamo ma agisce anche nella storia. Papa Francesco ci ha indicato una strada diversa da quella seguita fino ad ora”.

Araba cristiana, è nata in Israele. Parla perfettamente arabo ed ebraico. Ha ricevuto il premio Mount Zion 2013, insieme all’ebrea Yisca Harani per “l’apporto importante allo sviluppo del dialogo tra religioni e culture nella Terra Santa e alla comprensione tra ebrei, cristiani e musulmani”. Margaret Karram si è vista recapitare un invito personale di Papa Francesco per far parte della delegazione vaticana, quale membro del Movimento dei Focolari, donna, alla invocazione per la pace di domenica 8 giugno con Shimon Peres e Abu Mazen, presente anche il patriarca di Costantinopoli. È stata lei a dare voce alla preghiera di San Francesco. Già membro della Commissione episcopale per il dialogo interreligioso dell’Assemblea degli Ordinari Cattolici della Terra Santa, da soli due mesi è arrivata a Roma, al centro internazionale del Movimento dei Focolari.
Margaret, lei pensa davvero che quanto è successo domenica a Roma, possa smuovere qualcosa in un contesto così difficile come la Terra Santa?
“Penso di sì. Stando lì, ascoltando le preghiere e le parole che si dicevano i partecipanti, ho potuto cogliere che c’era il desiderio di pace ma anche la sofferenza vissuta da tutti e due i popoli che fa oggi dire basta ai conflitti, basta alla perdita di vite innocenti, basta vivere dietro un muro, essere prigionieri. Si avvertiva il bisogno di affermare la pace, una pace giusta. Certo questo momento di preghiera non farà miracoli. Ma questo incontro ha lasciato un segno profetico a cui tutti, anche in futuro, potranno guardare con speranza e con coraggio dire: noi ci crediamo. E anche se il processo di pace non sarà immediato, la semina c’è stata”.
Cosa l’ha colpita di più?
“Queste persone che si sono abbracciate, che hanno voluto essere lì, che potevano parlarsi. Anche il fatto di vederli salire sulla stessa macchina, guardarsi, darsi la mano: sono gesti che non sono per niente scontati. Nel nostro paese, c’è paura: i palestinesi non possono entrare in Israele, la gente utilizza trasporti diversi. Vedere invece i nostri leader seduti uno accanto all’altro, con il Papa e il Patriarca, è un’immagine a cui tantissimi, anche in futuro, guarderanno e darà un seguito”.
Ma i popoli sono pronti a seguire quanto hanno visto?
“Penso di sì. Ci sono tantissimi gesti di fraternità che si compiono in campo sociale, politico, a livello di scuole. Sono magari gesti nascosti o che non sono comunicati dai media. Ma ci sono. Credo anzi che la gente sia più pronta rispetto ai nostri governi. Ci sono certamente gruppi di estremisti da tutti e due lati, che cercano di generare confusione, di mettere in rilevo solo il negativo e il conflitto, però io che sono nata lì, posso assicurare che ci sono tantissime organizzazioni che lavorano per il dialogo, gente di buona volontà che non vuole più la guerra, che vive e vuole vivere in pace. Vedo una speranza grandissima e un desiderio profondo di mettere in luce questi spazi riconciliati che possono sembrare gocce nell’oceano ma che esistono. Questo non nasconde la sofferenza, il muro che divide le città, il dolore di sentirsi oppressi, di non avere la libertà di muoversi. È il prezzo grande che si sta pagando per la pace”.
Preghiera e politica sembrano avere due velocità diverse. Come riconciliarle?
“Dobbiamo fidarci di più della forza della preghiera e forse anche pregare di più perché Dio ci doni il dono della pace. Dio benedice non solo i passi che compiamo ma agisce anche nella storia. Papa Francesco ci ha indicato una strada diversa da quella seguita fino ad ora. Ci ha fatto vedere che è possibile guardarci come figli dell’unico Padre e quindi fratelli e sorelle tra noi. E ci ha detto: non mollate, non abbiate paura. Io ci sarò sempre, non mi stancherò e farò di tutto perché la pace si avveri”.
È un sogno. Cosa dà la certezza che si possa realizzare?
“La fede che è Dio a realizzarlo. Se ci illudiamo che siamo solo noi con le nostre forze, costruiremo un edificio sulla sabbia. Se non c’è una radice, se non si costruisce la pace su una base solida, appena arriva un po’ di vento cade e va via tutto. È una radice che non si vede ma è viva. Mi fa impressione in questo senso l’albero di ulivo che è stato piantato: per piantare un ulivo si deve scavare un buco molto profondo per poter poi lasciare alle radici la possibilità di svilupparsi in profondità. Ci vogliono poi tantissimi anni perché l’albero cresca e dia frutto. Penso che questo ci fa capire perché l’ulivo sia simbolo della pace: ha bisogno di una radice molto profonda, nascosta, che deve essere nutrita, dandole acqua ogni tanto. Una radice che va curata nel tempo perché l’albero dia frutto nel futuro”. Di Maria Chiara Biagioni per Agensir

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