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Detenuto suicida/ Il Papa non può stringere la mano a tutti, ma noi sì

Detenuto suicida/ Il papa non può stringere la mano a tutti, ma noi sìAlle 2 del mattino del 25 marzo, cioè lo stesso giorno in cui Papa Francesco ha visitato i carcerati di san Vittore a Milano, a Roma un bosniaco di trent’anni recluso per tentato omicidio, si è suicidato impiccandosi nel bagno della sua cella a Regina Coeli: solo due settimane prima aveva perso la figlia di un anno e non l’aveva potuta assistere, non l’aveva potuta stringere a sé nei suoi ultimi terribili giorni.

Cosa avrebbe fatto questo poveretto se avesse potuto stringere la mano del Papa come è accaduto alle ottocentocinquanta persone che il Pontefice aveva voluto salutare in carcere uno a uno? Don Marco Recalcati, il cappellano di san Vittore, ha raccontato che sabato una detenuta, dopo aver salutato Francesco, aveva detto “per due ore mi è sembrato di non essere in carcere”. Il Papa aveva guadagnato per lei una libertà straordinaria e questa mancanza di libertà è quella che ha ucciso il detenuto suicida.

Mentre le guardie carcerarie scoprivano l’ennesimo suicidio (nel 2017 il carcere ha già prodotto 10 suicidi e 19 morti) Papa Francesco spiegava che la strada per evitare che si ripetano in carcere morti come queste è quella di non togliere ai carcerati la dignità di essere umani. Perché è inevitabile togliere per qualche tempo la libertà a chi delinque ma non bisogna mai arrivare a togliere loro la dignità di essere persone. Il Papa dice tutto ciò con una sola espressione: “non bisogna mai dire: lo meritate!” Per questo il Papa che non giudica, che lascia giudicare a Dio, dice di sentirsi a casa propria tra assassini, ladri e delinquenti di ogni tipo. E fa di più. Dice che Gesù è lì. Tra di loro. Uno di loro.

Perché anche Gesù, ai suoi tempi, è stato carcerato, processato e condannato a morte. Come tuttora noi facciamo in Italia condannando non pochi al carcere a vita: “loro giustamente”, si dirà. E sentiamo echeggiare le parole del primo santo che è andato in Paradiso per quello che era: un ladrone. E ci è andato perché ha chiesto a Gesù di ricordarsi di lui come persona – “ricordati di… me”.

Io credo che anche questo detenuto bosniaco non sarebbe giunto a quel gesto estremo se ci fossimo ricordati di non togliere dignità a lui e a quelli come lui. Perché un detenuto non è solo un detenuto, ma continua ad essere un padre, un marito, un uomo che ha il suo diritto a un minimo di spazio (in quell’area del carcere di Regina Coeli sono racchiuse 170 persone). Oltretutto quest’uomo, il sucida di ieri, era anche straniero. Come Maria, Giuseppe e Gesù che vanno, da stranieri, in Egitto e devono traversare il deserto e dietro di loro ci sono grida di bambini che saranno spente dalla violenza di Erode.

Con il suicidio di ieri, con il Papa a san Vittore l’altro ieri, le opere di misericordia corporale, quelle tra cui c’è “visitare i carcerati”, smettono di essere un elenco e non vogliono più nemmeno solo dire andare “materialmente” in carcere: significano non dire mai a nessuno “te la sei meritato”. Ricordiamoci che siamo la patria di Beccaria e del suo “Dei delitti e delle pene”, de “Le mie prigioni” di quel Pellico che in un’orrida galera, privato della libertà personale e della patria, seppe vedere e scoprire nel “nemico”, un prossimo da amare, da capire, da conoscere e con il quale incontrarsi in un orizzonte, quello dell’amore, che è la Verità ultima cui tutti aneliamo approdare.

Di Don Mauro Leonardi

Articolo tratto da IlSussidiario.net





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