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L’universalità dei diritti umani

1In materia di diritti umani emergono essenzialmente due posizioni contrapposte:

  1. Da un lato l’apprezzamento del pluralismo culturale, che implica l’accettazione del relativismo a proposito della fondazione di valori e diritti umani definiti tali da ogni tradizione culturale o religiosa;
  1. Dall’altro l’esigenza di conferire una portata universalistica ai diritti, creando basi oggettive che vadano oltre i particolarismi culturalmente e storicamente condizionati.

La principale difficoltà nel tentare di stabilire principi universali, capaci di superare i confini culturali e, in particolare, religiosi, sta nel fatto che ogni tradizione deduce la validità dei suoi precetti e delle sue norme dalle proprie fonti. Quando una tradizione culturale, specialmente una religiosa, entra in relazione con altre tradizioni, generalmente lo fa in maniera negativa, forse persino ostile. Per ottenere la lealtà e l’ortodossia dei suoi membri, normalmente una tradizione culturale o religiosa afferma la propria superiorità rispetto alle altre.[1]

In questa cornice troviamo lo studio di Abdullahi Ahmed An-Naim, il quale sostiene l’esistenza di un principio normativo comune, condiviso da tutte le principali tradizioni culturali e religiose, che se interpretato in maniera illuminata è in grado di convalidare i principi universali dei diritti umani. Si tratta del principio elementare secondo cui ciascuno deve trattare gli altri nello stesso modo in cui desidera essere trattato. Questa regola aurea, definita “principio di reciprocità”, è condivisa dalle principali religioni del mondo. Inoltre, la forza morale e logica di questa semplice affermazione può essere apprezzata da tutti gli esseri umani, indipendentemente dalla loro tradizione culturale o dalle loro convinzioni filosofiche.

Il problema che l’uso del principio di reciprocità incontra in questo campo, è la tendenza delle tradizioni culturali e di quelle religiose in particolare, a limitare l’applicazione di tale principio ai membri della stessa tradizione culturale o religiosa, se non addirittura ai membri di un determinato gruppo all’interno di questa tradizione specifica.

Nel rispetto di tale principio, applicando il principio di reciprocità a tutti gli esseri umani, anziché ai soli membri di un gruppo particolare, i diritti umani universali sono quelli che una tradizione culturale rivendica per i propri membri e che, di conseguenza, dovrebbe riconoscere ai membri di altre tradizioni, se si aspetta un trattamento reciproco da parte degli appartenenti alle altre tradizioni.

Taha sosteneva che i diritti universali si fondano su due “forze primarie”, che motivano tutti i comportamenti umani: la volontà di vivere e di essere liberi. La volontà di vivere ha sempre fatto sì che l’uomo si assicurasse il cibo, un riparo, conservasse la salute e cercasse ogni altro mezzo necessario per continuare a vivere. La volontà di essere liberi a un primo livello coincide con la volontà di vivere: essere liberi dai vincoli fisici, essere sicuri del cibo, di un riparo, della salute e di tutto ciò che è necessario per condurre una vita confortevole. A un livello successivo, va oltre a quella di vivere perché è la forza che spinge a ricercare il benessere e l’eccellenza in termini spirituali, morali e artistici.[2]

Un chiaro esempio di ostacolo, forse il più grave, sia alla volontà di vivere sia alla volontà di essere liberi è rappresentato dalla schiavitù. Sebbene sia stata praticata da tutte le principali civiltà della storia, la schiavitù nel senso di proprietà legale e istituzionalizzata di esseri umani, è stata condannata da tutti gli Stati e posta fuori legge dal diritto nazionale e internazionale. L’abolizione della schiavitù può essere considerata il primo esempio di accettazione di un diritto umano internazionale, come limite della sovranità nazionale. In altri termini, il movimento contro la schiavitù ha stabilito il principio, secondo il quale la violazione di un diritto umano universale, da parte di un determinato paese, è una legittima preoccupazione degli altri paesi.

Un altro esempio di cooperazione internazionale, nel campo dei diritti umani, è il movimento volto a eliminare la persecuzione e la discriminazione delle minoranze religiose. A parte il rifiuto morale di queste pratiche, la persecuzione e la discriminazione su base religiosa erano ritenute le cause principali dei conflitti e guerre internazionali. Di conseguenza, numerosi Trattati internazionali hanno dichiarato tale persecuzione o discriminazione una violazione dei diritti umani.

Una terza area nella quale stanno emergendo marcate richieste di universalità, è la proibizione della discriminazione di genere. Anche se questo diritto non ha ancora ricevuto la stessa attenzione internazionale degli altri due casi, è stato ormai riconosciuto come un diritto umano universale da diverse Convenzioni internazionali.

Ogni tradizione culturale riconosce ai suoi membri il diritto di ottenere soddisfazione alle legittime richieste di queste due forze primarie (volontà di vivere e di essere liberi). Tale diritto deve essere garantito ai membri di tutte le tradizioni, secondo il principio di reciprocità.

Applicando tale criterio, possiamo identificare i diritti, le richieste e i poteri che andrebbero protetti come diritti umani, anche se non sono definiti tali da alcun Documento ufficiale. Tali diritti non devono essere accettati come universali soltanto perché riconosciuti da Carte internazionali, piuttosto vengono sanciti da Documenti internazionali proprio perché sono diritti umani universali, cioè diritti che spettano a ogni essere umano in quanto tale.

An-Naim propone un fondamento interculturale di base, uno standard, per identificarli, affermando che: «i diritti umani spettano a tutti gli esseri umani, poiché esseri umani»di Severis

3[1] I portavoce ufficiali della Repubblica Islamica dell’Iran hanno affermato la loro convinzione di essere vincolati dal diritto islamico e non dai principi internazionali dei diritti umani. An-Naim A. A., Riforma islamica. Diritti umani e libertà nell’Islam contemporaneo, Editori Laterza, Roma-Bari 2011, pag. 226.

[2] M. M. Taha fu giustiziato il 18 gennaio 1985, per essersi opposto all’applicazione, a suo parere arbitraria e distorta, della Sharia in Sudan, da parte del presidente Jafar Muhammad al-Numairi. E’ molto importante, per i nostri scopi, notare come la principale accusa a carico di Taha fosse la ridda (apostasia), poiché le sue opinioni erano considerate eretiche dalle autorità. M. M., The second messagge of Islam, Traduzione e Introduzione di An-Naim A. A., Syracuse University Press, Syracuse 1987, pag. 80.

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